[Rubrica] [In corso] Guerra: armi e tecnologie.

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_Thomas88_
00venerdì 21 marzo 2014 15:21
l'Iran sta costruendo una mini-portaerei
La portaerei è un modello in scala ridotta della portaerei americana USS Nimitz. E' due terzi più piccola dell’originale.
In pratica è una grande chiatta con la forma dell’unità USA e il ponte di volo.

Foto presa da un satellite spia americano.
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Articolo:

L’Iran sta costruendo un modello in scala ridotta della portaerei nucleare americana Nimitz. Di fatto una grande chiatta con la forma dell’unità e il ponte di volo. Quanto alle misure è due terzi più piccola dell’originale.

Forse è solo propaganda.
I lavori di costruzione, scoperti dai satelliti spia, sono in corso in un cantiere vicino a Bandar Abbas. Ma rispetto ad altre iniziative militari, gli iraniani non hanno fatto nulla per nascondere la loro attività. Resta da capire quale sia lo scopo di avere un modello di portaerei. Secondo funzionari dell’intelligence citati dal New York Times è possibile che l’Iran voglia usare la finta unità per scopi propagandistici. Magari la porta in mezzo al Golfo Persico e la fa saltare. Lavoro, però, costoso e inutile.

Ma non è escluso l’uso per addestramento.
In realtà è possibile che gli iraniani intendano impiegarla per fini di addestramento. Da anni la Marina dei pasdaran si prepara ad azioni contro la Marina Usa nel Golfo ed una delle tattiche è quella degli attacchi a sciami. Dozzine di piccole imbarcazioni che si lanciano verso le navi nemiche. Teheran ha acquistato motoscafi veloci , battelli e imbarcazioni d’ogni tipo. Emissari iraniani hanno anche acquisito progetti in Italia e Corea del Nord per “copiare” i modelli di piccole unità. Ma se un’attacco multiplo è possibile contro navi isolate, appare più problematico nei confronti di una portaerei che assai difficilmente entrerebbe nel Golfo ma resterebbe sempre fuori dallo stretto di Hormuz.

Fonte: Corriere della sera.it


Non so veramente che utilità possa avere una nave del genere.
Una portaerei è una macchina da guerra fenomenale ma da sola è vulnerabile e può rivelarsi inutile se mal utilizzata.
Infatti quello che rende inarrestabile una portaerei è il suo gruppo di battaglia.
Nell'US Navy il gruppo di battaglia è formato da una portaerei, incrociatori, fregate, cacciatorpediniere, sottomarini e nave da appoggio per i rifornimenti.

L'unica ipotesi fattibile a mio avviso è che questa mini-portaerei verrà utilizzata a soli scopi propagandistici, come ci ha abituato il regime iraniano in passato. Poi, forse, potrà essere utilizzata anche per alcune esercitazioni.
_Thomas88_
00mercoledì 26 marzo 2014 16:07
Gli USA e la caccia a Kony
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Il guerrigliero ugandese, ricercato internazionale, è nascosto nella giunga della Repubblica Centrafricana.

In un lungo articolo del Washington Post, oggi, viene raccontata una nuova fase della caccia che gli USA stanno dando da anni al guerrigliero ugandese Joseph Kony. Barack Obama ha infatti ordinato un aumento delle Forze Speciali americane impiegate in Uganda e, per la prima volta dall’inizio dell’operazione per catturare il criminale, ha ordinato l’invio dell’aviazione.
Come ha spiegato Amanda Dory, vice sottosegretario della Difesa per gli affari africani, almeno quattro aerei CV-22 Osprey arriveranno in Uganda verso la metà della settimana, insieme ad aerei cisterna per il rifornimento e a 150 militari dell’aviazione, tra piloti e addetti alla manutenzione. La Casa Bianca ha avviato il procedimento con cui, ai sensi del War Power Act, comunicherà al Congresso il nuovo dispiego di forze, che è iniziato domenica sera. Il personale statunitense è autorizzato a “fornire informazioni, consigli e assistenza” alla task force militare dell’Unione Africana che, attraverso l’Uganda, la Repubblica Centrafricana, il Sudan del Sud e il Congo, sta dando la caccia a Kony e alla sua organizzazione, il Lord Resistance Army (LRA). Nonostante siano equipaggiati per la battaglia, i soldati statunitensi non sono autorizzati a entrare in combattimento con le forze del LRA, se non per autodifesa. Con questa nuova decisione sotto il War Power Act, il numero totale di forze USAi impiegate in Uganda viene aumentato a circa 300.

Chi è Kony.
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Joseph Kony, 53 anni, ha guidato diversi gruppi ribelli contro il Governo ugandese. La sua formazione attuale è l’Esercito di Resistenza del Signore (LRA). L’obiettivo di Kony è rovesciare il Governo ugandese e instaurare una teocrazia. La sua ideologia è un misto di fondamentalismo cristiano e nazionalismo tribale (Kony appartiene agli Alcholi, una delle tribù che abitano l’Uganda).
Secondo molte fonti, all’interno della LRA si è sviluppato un culto della personalità nei confronti di Kony che sostiene di comunicare direttamente con Dio e di poter parlare con gli spiriti dei defunti. La LRA è stata accusata di centinaia di attacchi contro la popolazione civile, di aver reclutato migliaia di bambini per farli diventare schiavi sessuali oppure soldati. Caratteristica distintiva dell’LRA sono infatti le atrocità commesse durante le incursioni, in particolare il sistematico ricorso al rapimento di minori. Metodologie che sono valse al criminale ribelle e ad altri quattro esponenti del movimento l’accusa di crimini di guerra e contro l’umanità da parte della Corte penale internazionale e che hanno fatto del leader ribelle uno degli uomini più ricercati al mondo. Dal momento della sua nascita, l’LRA ha rappresentato un vero e proprio incubo per le popolazioni dell’intera regione, diventando una macchina da guerra con l’unico obiettivo di alimentarsi attraverso il ricorso alla violenza. Il conflitto si è inoltre sviluppato in quattro Stati (Uganda, Sudan, Repubblica Democratica del Congo [Rdc], Repubblica Centrafricana), ed è stato alimentato dalle dinamiche geopolitiche regionali: durante il conflitto sudanese, infatti, Kony ha potuto godere del sostegno che il presidente sudanese Bashir gli ha garantito in risposta al supporto assicurato dal presidente ugandese Museveni allo SPLA (Sudan People’s Liberation Army, braccio armato del partito secessionista Sudan People’s Liberation Movement che portato all’indipendenza del Sud Sudan). Grazie alla protezione di Khartoum, a partire da metà degli anni Novanta, l’LRA ha così potuto utilizzare il territorio sudanese come base dalla quale portare i suoi attacchi nel nord dell’Uganda.
Così è stato fino al 2005, quando l’accordo di pace in Sudan ha avuto l’effetto di indebolire notevolmente le capacità operative del movimento, che dal 2006 non è più presente in Uganda. Si pensa che negli ultimi anni l’esercito di Kony sia stato decimato dalle operazioni militari contro di loro e dalle defezioni. Fonti attendibili hanno confermato che il comandante in seconda di Kony, Okot Odhiambo, è stato ucciso mesi fa. Da tempo, tuttavia, la posizione di Kony non è nota con certezza. Si pensa che il suo esercito non conti più di 250 soldati e che cambi posizione frequentemente in un’ampia zona che attraversa gli Stati con cui è in guerra. Recentemente è stato ipotizzato che il ribelle si trovi da qualche parte nella giungla della Repubblica Centrafricana, che sta attraversando un momento di disordine politico e che è de facto senza un Governo. Le operazioni dell’Unione Africana e delle forze USA impegnate nella ricerca di Kony partono da diverse basi situate in Uganda. Il LRA non costituisce una minaccia per gli Stati Uniti, ma l’amministrazione vede l’aiuto alla missione dell’Unione Africana come un modo per rafforzare i rapporti politici e militari con i governi africani in una regione dove al Qaida e altre organizzazioni terroristiche si stanno rapidamente espandendo e come un modo per dimostrare attaccamento ai principi dei diritti umani. Nonostante i critici accusino Obama di “debolezza” in Siria e nonostante l’amministrazione sia stata sfidata dall’esercito Russo in Ucraina, la missione in Uganda è un modo relativamente poco costoso per mostrare risoluzione in una causa nota al pubblico. Le atrocità del LRA, pubblicizzate su internet, generarono molta attenzione da parte di decine di migliaia di persone, soprattutto adolescenti, molte delle quali scrissero ai loro parlamentari. Nel 2009 il Congresso promulgò una legge che esprimeva “sostegno per un aumento degli sforzi statunitensi per mitigare ed eliminare la minaccia costituita dal LRA ai civili e alla stabilità della regione”.

Per saperne di più su Kony e il suo gruppo LRA:
it.wikipedia.org/wiki/Joseph_Kony
it.wikipedia.org/wiki/Esercito_di_Resistenza_del_Signore

Il video "Kony 2012".
L'attenzione su Kony era aumentata nel marzo 2012 con la pubblicazione su Youtube e Vimeo di un filmato di 30 minuti dal titolo "Kony 2012", realizzato dal regista Jason Russell appartenente al gruppo di Invisible Children, Inc. L'intenzione dichiarata dalla produzione era di rendere famoso Kony per aumentare il coinvolgimento degli Stati Uniti nella questione ugandese.

Per saperne di più su "Kony 2012":
it.wikipedia.org/wiki/Kony_2012


Fonte: Giornale del Popolo
_Thomas88_
00domenica 11 maggio 2014 12:19
Scandalo scuote l'esercito britannico

Soldato britannico in posa con il talebano morto, scandalo in Gran Bretagna.
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Londra - Un nuovo scandalo scuote l'esercito britannico. Le forze armate del Regno Unito stanno indagando su alcune fotografie che ritraggono un soldato britannico in posa vicino al cadavere di un guerrigliero talebano in Afghanistan. Le controverse foto sono state pubblicate oggi sul sito Liveleak.com per poi essere riprese da tutti i principali media britannici. Le immagini sarebbero state scattate nel 2012 dopo un attacco dei talebani a Camp Bastion, il quartier generale afgano delle forze del Regno Unito. Le immagini mostrano un soldato inginocchiato con i pollici alzati vicino al cadavere del talebano. Il Ministero della Difesa di Londra ha detto in un comunicato che la Royal air force ha già avviato un'indagine sull'episodio.

Fonte: La Repubblica.it


Sfortunatamente le mele marce sono ovunque, da entrambi i lati della trincea.
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_Thomas88_
00martedì 27 maggio 2014 19:39
I soldati americani sempre più tecnologici

Ecco un paio di tecnologie che molto presto entreranno a far parte dell'equipaggiamento dei soldati americani e, sicuramente più tardi, anche di quelli di altri eserciti.


Q-Warrior.
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Tutti noi oramai conosciamo i Google Glass, gli occhiali a realtà aumentata.
Presto anche i militari americani potrebbero indossare un dispositivo simile chiamato Q-Warrior.
Il Q-Warrior è sviluppato dalla Bae Systens ed è in grado di elaborare informazioni in tempo reale, avere la piantina 3D di un edificio, mettersi in collegamento con un drone.
Le trattative tra l'esercito USA e l'azienda britannica sono già iniziate. La notizia è stata lanciata da Wired.com e poi diffusa dal blog di tecnologia Mashable.com


App per rifornire i Marines sul campo di battaglia.

E' in fase di sviluppo un sistema con un drone elicottero comandato con un app via tablet.

Presto i Marines Usa potranno ottenere munizioni e rifornimenti sul campo di battaglia usando un'app su un semplice iPad mini per richiamare un elicottero- drone. L'US Navy, secondo quanto riporta oggi il Financial Times, sta infatti sviluppando in tal senso un programma da 100 milioni di dollari, con elicotteri a dimensioni 'normali'. "Vogliamo fare come Amazon - ha detto al quotidiano britannico Max Snell, a capo del progetto in Virginia - solo che dovrà poter trasportare almeno 5.000 libbre (2.267 kg) di proiettili, batterie e acqua sul campo".
Il software in fase di sviluppo avrà un menu a tendina che permetterà al Marine di scegliere il tipo di rifornimenti di cui ha bisogno con il tocco di un dito, e con la stessa tecnica potrà indicare anche all'elicottero quali aree evitare per non essere abbattuto dal nemico. "Questa è una app che non si troverà certo sull'App Store", ha detto Nell, aggiungendo che il sistema dovrebbe essere pronto per un utilizzo su larga scala entro il 2020.
Stati Uniti e Gran Bretagna hanno subito forti perdite in Iraq e Afghanistan nel settore dei rifornimenti, i cui mezzi di trasporto sono un obiettivo ambito. Ed è per questo che da quattro anni il Corpo dei Marines sta utilizzando almeno due elicotteri Kaman modificati per la guida remota, che hanno anche il vantaggio di poter volare in condizioni meteo estreme di solito proibitive per un equipaggio umano. Traendo vantaggio da questa esperienza, il progetto AACUS (Autonomous Aerial Cargo Utility System) vuole sviluppare un sistema di sensori, antenne e computer, installabile in qualsiasi elicottero in forza presso i Marines, compreso il convertiplano Osprey V22, per renderli operabili da terra attraverso tablet Apple o Android.


Fonte: Ansa.it
_Thomas88_
00lunedì 2 giugno 2014 11:02
Liberato l’ultimo soldato USA. Era in mano ai talebani da 5 anni.
Sembra la storia di un film o della serie TV “Homeland – Caccia alla spia”.
Ma è tutto vero.

Una brutta storia che si è conclusa nel migliore dei modi.


Il sergente Bowe Berdahl.
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Bergdahl durante la prigionia.
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Il Sergente dell’US Army Bowe Bergdahl venne catturato dai talebani il 30 giugno 2009 in Afghanistan.
Era arrivato sul campo di battaglia da soli due mesi quando venne preso dagli uomini di Haqqani nella parte orientale del paese.
Era l’unico americano prigioniero in Afghanistan ed è stato liberato in cambio del rilascio di cinque talebani di Guantanamo.
A dare l’annuncio della liberazione è stato il presidente degli Usa Obama. Il presidente ha detto di essere stato onorato di aver potuto chiamare di persona i genitori di Bergdahl per dargli la lieta notizia. Nel discorso alla nazione si è congratulato ed ha ringraziato chi ha partecipato all’operazione, soprattutto il Qatar, ed ha assicurato che gli Stati Uniti continueranno a lavorare per portare a casa tutti i prigionieri.
“La sua famiglia non lo ha mai dimenticato durante la prigionia. Il suo paese non lo ha dimenticato durante la sua prigionia”.
“ La liberazione del Sergente Bergdahl ci ricorda l’impegno fermo dell’America a non lasciare nessun uomo o donna in uniforme sul campo di battaglia» ha evidenziato Obama. “Gli Stati Uniti sono impegnati a mettere fine a guerra in Afghanistan e a chiudere Guantanamo.”
Bergdahl ora ha 28 anni, sarebbe in buone condizioni di salute ed è in grado di camminare.
La sua brutta odissea è finita all’alba di sabato in un’area vicino al confine con il Pakistan, quando è stato consegnato alle forze speciali americane. La liberazione è stata ottenuta grazie alla mediazione del Qatar: i talebani hanno accettato che in cambio venissero rilasciati cinque detenuti dal campo di sicurezza di Guantanamo e trasferiti nello Stato del Golfo.
Ora il sergente Bergdahl sarà trasferito nella base area di Bagram per accertamenti medici e poi volerà negli Stati Uniti per riabbracciare i propri cari che lo stavano aspettando da 5 lunghissimi anni.
Molto soddisfatti anche il Segretario di Stato John Kerry e il Segretario alla Difesa Chuck Hagel, che hanno assicurato a Bergdahl tutto l’appoggio necessario per tornare alla vita normale.
Nella casa del sergente, nell’Idaho, la famiglia ha iniziato i festeggiamenti, attendendo di riabbracciare il proprio caro.
Ma anche sull’altro fronte non sono mancati i festeggiamenti. I talebani hanno espresso la loro grande gioia e soddisfazione per il rilascio dei loro cinque compagni di Guantanamo.

Ecco un paio di foto dei genitori di Bergdahl con il Presidente Obama durante l’annuncio della liberazione.
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_Thomas88_
00domenica 15 giugno 2014 15:20
Mare Nostrum: navi militari usate come traghetti
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La fregata Fremm Carlo Bergamini.

Nella controversa emergenza determinata dal crescente flusso di immigrati clandestini che dalle coste libiche si riversano in Italia, pochi numeri spiegano forse meglio di tante parole l’assurdità dell’operazione Mare Nostrum. Secondo i dati forniti dall’agenzia dell’ Onu per i rifugiati (UNHCR), sono già 52 mila i clandestini giunti in Italia dall’inizio dell’anno, in buona parte raccolti in mare dalle navi da guerra della Marina Militare che il governo continua a impiegare come traghetti improvvisati. Un numero impressionante pari agli arrivi registrati nel 2011 in seguito alla cosiddetta primavera di Tunisi e alla guerra libica, peraltro destinato a crescere ulteriormente grazie al bel tempo estivo e alla disponibilità di Roma a far oltrepassare i nostri confini a chiunque sia pronto a pagare il pizzo alle mafie nordafricane. Come ha sottolineato ironicamente Germano Dottori, docente di Studi Strategici presso l’Università LuissGuido Cadi di Roma, «la Marina viene impiegata come subcontraente dei trafficanti di esseri umani».
Nell’operazione Mare Nostrum, che impegna in media 5 navi da guerra per un costo mensile vicino ai 10 milioni di euro, la Marina sta impiegando non soltanto vecchie fregate tipo Maestrale e corvette tipo Minerva (destinate alla prossima radiazione), ma anche la fregata multimissione Carlo Bergamini, gioiello tecnologico entrato in servizio nel 2012 e costato al contribuente oltre 500 milioni di euro. Una delle 10 fregate tipo Fremm previste e finanziate con i fondi del ministero dello Sviluppo economico per innalzare lo standard tecnologico della nostra flotta. Con le sue quasi 7mila tonnellate di stazza, la Bergamini imbarca i più moderni sistemi elettronici, missilistici e d’artiglieria ed è stata impegnata insieme alla portaerei Cavour nella missione di promozione del made in Italy effettuata in Medio Oriente e Africa tra il novembre 2013 e l’aprile scorso. La nave, insomma, è una sorta di vetrina dell’hi-tech italiano. Ma viene ora utilizzata come «traghetto», e negli ultimi giorni ha raccolto e trasportato nei porti siciliani un migliaio di clandestini prelevati dai barconi partiti dalle coste nordafricane.
Paradossalmente quasi diventando parte della filiera del business delle traversate: gli scafisti arrivano fino al largo delle coste siciliane, poi ci pensa la Bergamini a portare a termine il lavoro. Certo, la Marina fa quel che può con i mezzi che ha, e per far fronte alla missione è costretta pure suo malgrado a impiegare anche navi a dir poco inadatte per dimensioni e costi di gestione. Ma utilizzare la Bergamini per soccorrere immigrati è conveniente quanto usare una Ferrari per trainare un aratro. A completare il quadro contribuisce poi un altro numero che rappresenta l’incasso dei trafficanti di esseri umani che gestiscono gli imbarchi dei clandestini. Si tratta di cifre solitamente difficili da stabilire con esattezza, ma in un’intervista realizzata dall’agenzia Redattore Sociale un trafficante libico di Zuara ha riferito di incassare intorno ai 200mila dollari a barcone – che, tolti gli 80mila di spese sostenute, consentono all’«uomo d’affari» (come si definisce lui stesso) un guadagno netto (e ovviamente esentasse) di 120 mila dollari a imbarcazione. Se teniamo conto che nella sola giornata di venerdì scorso sono salpati dalla Libia 17 barconi, il conto è fatto.

Fonte: Libero Quotidiano / Analisi Difesa.


Questo articolo spiega benissimo l'assurdità della missione Mare Nostrum.
E una cosa che fa veramente ridere è vedere i nostri marinai e i nostri gioielli navali che, loro malgrado perchè devono eseguire degli ordini, favoriscono questo continuo flusso di persone disperate verso le nostre coste.
Se avessimo mostrato una linea leggermente più dura in passato, oggi non assisteremo a questo "disastro", e per disastro intendo centinaia e migliaia di persone fatte entrare nel nostro Paese come se noi potessimo accogliere tutte le persone del mondo che fuggono dalla guerra.
Non siamo una "terra promessa". E l'Europa non dovrebbe stare a guardare. E' un problema anche suo!
_Thomas88_
00martedì 8 luglio 2014 19:27
Abu Bakr al-Baghdadi: ecco chi è il “Califfo Ibrahim”, l'erede di Bin Laden

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“Il vero erede di Osama Bin Laden”. Così David Ignatius, editorialista americano vincitore del premio Pulitzer, ha definito l’astro nascente del jihad globale, Abu Bakr al-Baghdadi, l’uomo che ha messo in ginocchio l’Iraq. E che ora, per la prima volta, è apparso in video presentandosi come il “califfo Ibrahim” ed ordinando ai musulmani di usare il mese sacro del Ramadan per lanciare la jihad contro “i nemici di Dio”. Un personaggio carismatico – dice chi lo ha conosciuto – dal passato misterioso. Un semplice militante islamista che in pochi anni ha scalato i vertici dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS) e oggi è il leader di un’organizzazione che controlla un’area grande come un paese, a cavallo tra la Siria e il nord dell’Iraq, e ha gettato le basi per la nascita di un emirato islamico. Poche sono le informazioni certe che si hanno su al-Baghdadi. Prima del video di ieri, che gli esperti di Site ritengono autentico, rare sono state le sue foto ritenute tali: in una appare con una carnagione olivastra e un viso tondo.

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Nell’altra, diffusa a gennaio dal governo iracheno, indossa una tunica nera e ha una folta barba. L’immagine è sfocata, come se fosse stata scattata da un’altra foto. E’ un abile stratega militare ed un assassino spietato tanto che gli Stati Uniti hanno messo su di lui una taglia da 10 milioni di dollari. E’ lui il nuovo Bin Laden – scrivono gli analisti – perché è “più violento, aggressivo e anti-americano” di Ayman al-Zawahiri, l’egiziano che guida al-Qaeda. “Da più di 10 anni al-Zawahiri se ne sta rintanato nell’area al confine tra Pakistan e Afghanistan e non ha diffuso che pochi comunicati e video, mentre al-Baghdadi ha fatto tantissimo, conquistando città, mobilitando un numero incredibile di persone, uccidendo senza pietà tra la Siria e l’Iraq”, sostiene l’ex capo dell’antiterrorismo britannico Richard Barrett.
Nato nel 1971 a Samarra, città santa per gli sciiti dell’Iraq settentrionale, Awwad Ibrahim Ali al-Badri al-Samarrai – questo il vero nome di al-Baghdadi – si ritiene un discendente diretto del profeta Maometto. Secondo la biografia apparsa su alcuni siti jihadisti, viene da una famiglia religiosa. Tra i suoi fratelli e gli zii ci sono predicatori ed insegnanti di logica e retorica. Ha conseguito un dottorato all’ex Università Islamica di Baghdad. Per questo motivo molti dei suoi seguaci si appellano a lui chiamandolo ‘Dottore’. Si ritiene che nei primi anni Duemila, durante il periodo dell’intervento americano in Iraq, sia stato a sua svolta un predicatore.

Nel caos di quegli anni ha abbracciato l’islam radicale, fondando un gruppo armato nell’Iraq orientale. La scarsità di notizie sul suo passato – suggeriscono gli analisti – potrebbe essere legata a una strategia ben precisa, come spiega Musreq Abbas su al-Monitor: “Il mistero che circonda al-Baghdadi a livello di personalità, movimenti, famiglia e del suo inner circle è il risultato di ciò che è accaduto in passato ai leader jihadisti, che sono stati uccisi una volta scoperti i loro movimenti”. Le informazioni su al-Baghdadi sono più attendibili dopo il 2005, quando è stato catturato dalle forze Usa che lo hanno tenuto prigioniero quattro anni nel carcere di Camp Bucca, nel sud dell’Iraq.
E’ a questo periodo che risale la prima foto del leader dell’IsiS. La sua ascesa ai vertici della formazione jihadista è datata invece 2010, dopo che diversi leader di gruppi legati ad al-Qaeda in Iraq sono stati uccisi. La svolta alla sua ‘carriera’ da jihadista è dovuta al conflitto scoppiato in Siria nei primi mesi del 2011.

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La guerra civile, che ha provocato un vuoto di potere in diverse aree del paese, ha dato una spinta decisiva al reclutamento dell’Isis. In pochi anni 12mila estremisti islamici – 3mila dei quali occidentali – hanno scelto di arruolarsi tra le fila del gruppo di al-Baghdadi, che appare in continua espansione. Il capo dell’Isis sta infatti reclutando nuovi gruppi un tempo affiliati ad al-Qaeda, in particolare in Yemen e tra gli shabab somali. L’organizzazione di al-Zawahiri è un concorrente, ma con poco appeal tra le frange radicali islamiche. “Se sei un ragazzo che cerca azione, oggi devi andare con al-Baghdadi”, sottolinea Barrett. Anche ora che si è guadagnato il rispetto dei militanti islamici per le sue capacità in battaglia, al-Baghdadi mantiene un profilo basso. Si dice che nessuno sappia dove sia. Secondo alcuni, quando incontra un prigioniero è solito indossare una maschera per non farsi riconoscere. A giugno si è staccato definitivamente dalla leadership di al-Qaeda, malgrado i tentativi di al-Zawahiri di riportarlo nei ranghi. “Ho scelto di farmi comandare da Dio e non da chi gli è contro”, ha il messaggio inviato da al-Baghdadi all’egiziano.

Fonte: Analisi Difesa


Spiegato bene chi è il leader dell'ISIS, nei prossimi giorni pubblicherò un articolo per parlare e capire meglio questo gruppo jihadista che sta mettendo in ginocchio l'Iraq.
_Thomas88_
00lunedì 14 luglio 2014 11:58
L’ISIS, ecco cos’è lo Stato Islamico dell'Iraq e del Levante

Ecco un articolo molto dettagliato che spiega bene che cos'è l'ISIS.
L'articolo è del 19 giugno 2014.



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Negli ultimi dieci giorni l’Iraq – paese a maggioranza sciita con una storia recente complicata e violenta – è stato conquistato per circa un terzo del suo territorio da uno dei gruppi islamici sunniti più estremisti in circolazione, lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, noto anche con la sigla “ISIS”.
Non è la prima volta che in Occidente si sente parlare di ISIS: da più di due anni l’ISIS combatte nella guerra civile siriana contro il presidente sciita Bashar al Assad, e da circa un anno ha cominciato a combattere non solo le forze governative siriane ma anche i ribelli più moderati, creando di fatto un secondo fronte di guerra. L’ISIS è un’organizzazione molto particolare: definisce se stesso come “stato” e non come “gruppo”. Usa metodi così violenti che anche al Qaida di recente se ne è distanziata. Controlla tra Iraq e Siria un territorio esteso approssimativamente come il Belgio, e lo amministra in autonomia, ricavando dalle sue attività i soldi che gli servono per sopravvivere. Teorizza una guerra totale e interna all’Islam, oltre che contro l’Occidente, e vuole istituire un califfato non si sa bene dove: ma i suoi capi sono molto ambiziosi.
Oggi l’ISIS è arrivato a meno di 100 chilometri dalla capitale irachena Baghdad. La sua avanzata, rapida e inaspettata, ha fatto emergere i moltissimi problemi dello stato iracheno e ha intensificato le tensioni settarie tra sciiti e sunniti, alimentate negli ultimi anni dal pessimo governo del primo ministro sciita iracheno Nuri al-Maliki. Per capire l’ISIS – da dove viene, che strategia ha, dove può arrivare – abbiamo messo in ordine alcune cose essenziali da sapere. Che tornano utili per capire che diavolo sta succedendo in Medioriente, e non solo in Iraq e in Siria.


Da dove viene l’ISIS? Che c’entra al Qaida?

Per capire la storia dell’ISIS serve anzitutto introdurre tre personaggi molto noti tra chi si occupa di terrorismo e jihad: il primo, conosciuto da tutto il mondo per gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, è Osama bin Laden, uomo di origine saudita che per lungo tempo è stato a capo di al Qaida; il secondo è un medico egiziano, Ayman al-Zawahiri, che ha preso il posto di bin Laden dopo la sua uccisione in un raid americano ad Abbottabad, in Pakistan, il 2 maggio 2011; il terzo è Abu Musab al-Zarqawi, un giordano che dagli anni Ottanta e poi Novanta – cioè fin dai tempi della guerra che molti afghani combatterono contro i sovietici che avevano occupato il territorio dell’Afghanistan – era stato uno dei rivali di bin Laden all’interno del movimento dei mujaheddin, e poi anche di al Qaida.

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Al-Zawahiri e bin Laden.

Nel 2000 Zarqawi decise di fondare un suo proprio gruppo con obiettivi diversi da quelli di al Qaida “tradizionale”, diciamo. Al Qaida era nata sull’idea di sviluppare una specie di legione straniera sunnita, che avrebbe dovuto difendere i territori abitati dai musulmani dall’occupazione occidentale (bin Laden aveva invocato come punto di partenza della sua guerra santa il dispiegamento di mezzo milione di soldati statunitensi nella Prima Guerra del Golfo, nel 1990, intervenuti per ricacciare in Iraq l’esercito di Saddam Hussein che aveva invaso il Kuwait). Ma Zarqawi aveva altro in testa: voleva provocare una guerra civile su larga scala e per farlo voleva sfruttare la complicata situazione religiosa dell’Iraq, paese a maggioranza sciita ma con una minoranza sunnita al potere da molti anni con Saddam Hussein.


L’ideologia e la strategia di Zarqawi.

L’obiettivo di Zarqawi, che si è definito meglio anche con l’intervento successivo di diversi ideologi jihadisti, era creare un califfato islamico esclusivamente sunnita. Questo punto è molto importante, perché definisce anche oggi la strategia dell’ISIS e ne determina le sue alleanze in Iraq. In un libro pubblicato nel 2004, e scritto dallo stratega jihadista Abu Bakr Naji, è spiegata piuttosto bene la strategia di Zarqawi: portare avanti una campagna di sabotaggi continui e costanti a siti turistici e centri economici di stati musulmani, per creare una rete di “regioni della violenza” in cui le forze statali si ritirassero sfinite dagli attacchi e in cui la popolazione locale si sottomettesse alle forze islamiste occupanti.
Nella pratica le cose sono andate così. Nel 2003, solo cinque mesi dopo l’invasione statunitense in Iraq, il gruppo di Zarqawi fece esplodere un’autobomba in una moschea nella città irachena di Najaf durante la preghiera del venerdì: rimasero uccisi 125 musulmani sciiti, tra cui l’ayatollah Muhammad Bakr al-Hakim, che avrebbe potuto garantire una leadership moderata al paese. Fu un attacco violentissimo. Negli anni gli attentati andarono avanti e nel 2004 Zarqawi sancì la sua vicinanza con al Qaida chiamando il suo gruppo Al Qaida in Iraq (AQI): nonostante la differenza di vedute, l’affiliazione garantiva vantaggi a entrambe le parti, per esempio permetteva a bin Laden di avere una forte presenza in Iraq, paese allora occupato dalle forze americane. Nel frattempo, nel 2006, Zarqawi era stato ucciso da una bomba americana, e il suo posto era stato preso da Abu Omar al-Baghdadi (fu ucciso poi nel 2010, e il suo posto fu a sua volta preso da Abu Bakr al-Baghdadi).


L’ISIS di al-Baghdadi e il califfato islamico.

Il gruppo di al-Baghdadi subì un notevole indebolimento nel 2007 a seguito del parziale successo della strategia di controinsurrezione attuata nel 2007 in Iraq dal generale statunitense Petraeus, che prevedeva una maggiore vicinanza e solidarietà delle truppe con la popolazione e che contribuì a ridurre le violenze settarie e il ruolo di al Qaida per almeno due anni. La strategia di Petraeus si basava su una collaborazione con le tribù sunnite locali, che mal sopportavano l’estremismo di al Qaida: questa strategia oggi sembra inapplicabile, a causa delle politiche violente e settarie che il primo ministro sciita Nuri al-Maliki ha attuato contro i sunniti negli ultimi quattro anni, compromettendo per il momento qualsiasi possibilità di collaborazione.
Nel 2011 il gruppo ricominciò a rafforzarsi, riuscendo tra le altre cose a liberare un certo numero di prigionieri detenuti dal governo iracheno. Nell’aprile del 2013 AQI cambiò il suo nome in Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS), dopo che la guerra in Siria gli diede nuove possibilità di espansione anche in territorio siriano. Il fatto di includere la regione del Levante nel nome del gruppo (cioè l’area del Mediterraneo orientale: Siria, Giordania, Palestina, Libano, Israele e Cipro) era l’indicazione di un’espansione delle ambizioni dell’ISIS, ma non ne spiegava del tutto gli obiettivi finali. Zack Beauchamp ha scritto una lunga e precisa analisi dell’ISIS sul sito di Vox, e tra le altre cose ha provato a capire in quali territori il gruppo ha intenzione di istituire un califfato islamico: con l’aiuto di alcune mappe, Beauchamp ha mostrato come gli obiettivi dell’ISIS siano confusi, mutabili nel tempo ma estremamente ambiziosi (in una, per esempio, tra i territori su cui l’ISIS ambisce a imporre il suo controllo c’è anche il Nordafrica).


Quanti sono, quanto sono cattivi e cosa vogliono, quelli dell’ISIS?

Charles Lister, uno dei più esperti analisti di jihadismo in Siria e Iraq, ha scritto su CNN che l’ISIS in Iraq è formato da circa 8mila uomini, un numero di combattenti insufficienti di per sé a prendere il controllo delle città conquistate negli ultimi dieci giorni nel nord e nell’est dell’Iraq. Infatti l’ISIS non ha fatto tutto da solo, ma si è alleato con le tribù sunnite e con gruppi baathisti (cioè sostenitori del partito Baath, lo stessa cui apparteneva Saddam Hussein) dell’Iraq, che hanno un solo obiettivo in comune con il gruppo di al-Baghdadi: rimuovere dal potere il primo ministro sciita iracheno Nuri al-Maliki. Come ha sintetizzato chiaramente il Washington Post, le città ora sotto il controllo dei ribelli sunniti sono 27.

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Lister ha scritto che normalmente alleanze di questo genere – formate da gruppi così diversi – non possono stare insieme a lungo, a meno che non si mantenga un clima di contrapposizione totale. In Iraq questo clima è alimentato, tra le altre cose, anche da una delle caratteristiche distintive dell’offensiva dell’ISIS: la brutalità dei suoi attacchi. La guerra dell’ISIS sembra una “guerra totale” – come dimostra il massacro di soldati sciiti a Tikrit, la città natale di Saddam Hussein. Sul New Yorker Lawrence Wright ha descritto così il modus operandi del gruppo:
"Bin Laden e Zawahiri avevano sicuramente una certa familiarità con l’uso della violenza contro i civili, ma quello che non riuscirono a capire fu che per Zarqawi e la sua rete la brutalità – particolarmente quando diretta verso altri musulmani – era il punto centrale dell’azione. L’idea di questo movimento era l’istituzione di un califfato che avrebbe portato alla purificazione del mondo musulmano"
La brutalità dell’ISIS era già stata notata da al Qaida nella guerra in Siria: dalla fine del 2013 il capo di al Qaida, Zawahiri, cominciò a chiedere all’ISIS di rimanere fuori dalla guerra (in Siria al Qaida era già “rappresentata” dal gruppo estremista Jabhat al-Nusra). Al-Baghdadi però si rifiutò e nel febbraio del 2014 Zawahiri “espulse” l’ISIS da al Qaida («Fu la prima volta che un leader di un gruppo affiliato ad al Qaida disubbidiva pubblicamente», ha detto un esponente qaedista). In altre parole l’ISIS si era dimostrata troppo violenta anche per al Qaida, soprattutto perché prendeva di mira non solo le truppe di Assad ma anche altri gruppi dello schieramento dei ribelli sunniti. Alla fine del 2013 l’ISIS, rafforzato dalle vittorie militari in Siria, tornò in Iraq e conquistò le città irachene di Falluja e Ramadi. E poi le altre, negli ultimi dieci giorni.


Come si mantiene l’ISIS? E che possibilità ha di vincere?

A differenza di altri gruppi islamisti che combattono in Siria, l’ISIS non dipende per la sua sopravvivenza da aiuti di paesi stranieri, perché nel territorio che controlla di fatto ha istituito un mini-stato che è grande approssimativamente come il Belgio: ha organizzato una raccolta di soldi che può essere paragonata al pagamento delle tasse; ha cominciato a vendere l’elettricità al governo siriano a cui aveva precedentemente conquistato le centrali elettriche; e ha messo in piedi un sistema per esportare il petrolio siriano conquistato durante le offensive militari. I soldi raccolti li usa, tra le altre cose, per gli stipendi dei suoi miliziani, che sono meglio pagati dei ribelli siriani moderati o dei militari professionisti, sia iracheni che siriani: questo gli permette di beneficiare di una migliore coesione interna rispetto a qualsiasi suo nemico statale o non-statale che sia. Come mostra una mappa risalente al 2006 trovata da Aaron Zelin, ricercatore al Washington Institute for Near East Policy, non si può dire che l’ISIS sia privo di una strategia economica precisa: già diversi anni fa aveva pensato a come sfruttare i giacimenti petroliferi per sostenersi finanziariamente.

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I arancione è indicata l'area controllata dall'ISIS.

In pratica l’ISIS è riuscito finora a massimizzare ciò che gli ha offerto la guerra in Siria. La stessa cosa potrebbe però non ripetersi in Iraq, per almeno due motivi.
Il primo è che l’ISIS potrebbe in qualche maniera “fallire” economicamente, perché le sue entrate – che derivano soprattutto da attività illegali a Mosul – potrebbero non essere più sufficienti a sostenere la rapida espansione territoriale di questi ultimi giorni. Una possibilità è che l’ISIS riuscisse a sfruttare il petrolio iracheno come già fa in Siria nelle aree sotto il suo controllo: in Iraq tuttavia le zone che potrebbe plausibilmente conquistare non hanno giacimenti estensive di petrolio, e le infrastrutture necessarie per il suo sfruttamento non sono sviluppate come quelle siriane.
Il secondo è che l’aggravarsi della crisi irachena ha spinto il governo iraniano a organizzare le proprie forze e intervenire. L’Iran ha già mandato in Iraq circa 500 uomini delle forze Quds, il suo più temibile corpo d’élite appartenente alla Guardia Rivoluzionarie (forza militare istituita dopo la rivoluzione del 1979), specializzato in missioni all’estero e già attivo da tempo in Iraq. Le forze Quds sono probabilmente il corpo militare più efficiente dell’intero Medioriente, molto diverse dal disorganizzato esercito iracheno che è scappato da Mosul per non affrontare l’avanzata dell’ISIS. Con l’intervento dell’Iran e di altre milizie sciite che fanno riferimento a potenti leader religiosi sciiti locali, è difficile pensare che l’ISIS possa avanzare ulteriormente verso Baghdad – che tra l’altro è una città a grandissima maggioranza sciita – mentre è più facile che provi a rafforzare il controllo sulle parti di territorio iracheno a prevalenza sunnita che è già riuscito a conquistare.


Articolo di Elena Zacchetti.

Fonte: Il Post
_Thomas88_
00mercoledì 30 luglio 2014 12:17
La Russia torna sull’Artico con una base militare

Dopo 20 anni, la Russia torna sull’Artico con una presenza militare stabile. Lo ha detto il presidente Vladimir Putin, annunciando a un gruppo di ufficiali la riapertura di una base sovietica sulla maggiore delle Isole della Nuova Siberia, un arcipelago a nord della Yakutia. L’obiettivo è assicurare il controllo di una regione strategica, il corridoio settentrionale tra Asia ed Europa: posto al centro degli interessi di tutto il mondo dal ridimensionamento dei ghiacci che la stanno trasformando in via commerciale, oltre che scrigno di idrocarburi meno difficili da raggiungere.
«Le nostre forze hanno lasciato l’area nel 1993 – ha detto Putin – ma nel frattempo questo è diventato un punto cruciale dell’Oceano Artico, un nuovo stadio nello sviluppo della Via marittima settentrionale». Dunque non si tratta solo di riaprire la base militare e la pista di atterraggio sull’isola Kotelnyj, ma anche di creare una stazione abitata da idrologi, climatologi, funzionari del ministero per le Emergenze, in modo da «garantire la sicurezza e l’efficienza» della rotta artica.

Lungo la quale, a poco a poco, il traffico si intensifica: ai primi di settembre è arrivato a Rotterdam il primo carico commerciale cinese ad averla percorsa, dopo 34 giorni di navigazione da Dalian, attraverso lo Stretto di Bering e poi lungo le coste russe settentrionali. Se nel 2012 sono state 46 le navi che hanno scelto la via dell’Artico in alternativa al Canale di Suez, quest’anno a fine stagione i russi ne avranno contate 400.
L’annuncio di Putin è stato preceduto da una forza della Flotta settentrionale guidata dal re della Marina militare russa, l’incrociatore nucleare lanciamissili Pjotr Velikij (Pietro il Grande), giunta attorno alle Isole della Nuova Siberia per compiere imponenti esercitazioni navali. Più a nord, oltre le 200 miglia nautiche che delimitano le acque su cui la Russia ha diritti economici esclusivi, si apre la fascia artica che Mosca rivendica come propria, perché legata alla piattaforma continentale russa. Alla missione presso le Isole Novosibirsk ne seguiranno altre attorno alla Terra di Francesco Giuseppe e Nuova Terra. «Siamo arrivati o, più precisamente, siamo tornati lassù per sempre», ha chiarito il viceministro russo della Difesa, Arkadij Bakhin.


Articolo di: Antonella Scott da Il Sole24Ore del 17 settembre 2013


Che il Polo Nord possa diventare un nuovo terreno di scontro tra gli USA e la Russia?
_Thomas88_
00giovedì 31 luglio 2014 11:20
La nuova "Guerra Fredda" tra USA e Russia per il Polo Nord

Questo articolo è precedente a quello pubblicato ieri ma serve per far meglio comprendere perchè la Russia vuole e rivendica il Polo Nord.


La Russia affila le armi: presto sarà guerra per l’Artico. “Non risparmieremo alcuno sforzo – ha assicurato nei giorni scorsi in un’intervista all’agenzia Reuters l’esploratore polare Artur Chilingarov – per dimostrare che la Russia sta seduta su risorse artiche. Facciamo molto, molto sul serio”. Chilingarov, eroe nazionale da quando, nell’estate 2007, scese con il suo minisottomarino a 4.200 metri di profondità sotto il Polo Nord per piantarvi il tricolore russo, ha precisato che la conquista dell’Artico è un progetto “sostenuto dal presidente. Un obiettivo da centrare entro la fine dell’anno”. Entro fine anno i russi torneranno alla carica alle Nazioni Unite, sicuri di poter provare che, attraverso la dorsale Lomonosov, sotto il mare la piattaforma artica è collegata senza interruzioni al continente siberiano, e ha la stessa struttura geologica: è terra russa, dunque, e per questo a Mosca spetta una “quota” dell’Artico molto superiore a quella che le viene riconosciuta attualmente. Non solo ghiacci, ma le grandi risorse naturali – gas, petrolio, diamanti, oro, carbone, ferro – che il clima e la tecnologia renderanno meno difficili da raccogliere. “Non vogliamo nulla che appartenga a qualcun altro – ha affermato Chilingarov – ma se dimostriamo che è nostro, ci spetta”. La questione non è così semplice: tutti i Paesi che si affacciano sulla regione artica – oltre alla Russia gli Stati Uniti, il Canada, la Danimarca e la Norvegia – sono pronti a difendere i propri interessi, e rivendicazioni sul Polo vengono anche da danesi e canadesi. Per non parlare di una ventina di altre nazioni che, prendendo a modello l’Antartide, sostengono che le risorse attorno al Polo Nord debbano essere accessibili a tutti.

Il diritto del mare.
Al momento da queste parti detta legge la Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare, che dal 1982 affida ai cinque Paesi costieri il controllo sull’Oceano Artico per 200 miglia nautiche dalle rispettive piattaforme continentali, zona economica esclusiva per ciascuno di loro. Oltre le 200 miglia, le acque dell’Artico non hanno un’appartenenza, ma stanno diventando terreno di battaglia. Nel 2001 la Russia aveva tentato un primo approccio all’Onu reclamando un’estensione del proprio regno artico, e venne respinta per mancanza di prove. “Non siamo più nel XV secolo – aveva sbottato il ministro degli Esteri canadese, Peter MacKay, quando nel 2007 Chilingarov scese sotto il Polo – non puoi più andare in giro per il mondo piantando bandiere e dicendo: reclamiamo questo territorio”. Secondo le stime della US Geological Survey, sarebbe nascosto nell’Artico il 30% del gas naturale e il 15% del petrolio che l’uomo non ha ancora scoperto. La ragione per cui ad affacciarsi sul Polo ci sono anche sempre più numerose compagnie energetiche, dall’Alaska alla Chukotka, in gara per non perdere l’occasione: Statoil, ExxonMobil, Eni, Total, Shell, e naturalmente le russe Gazprom e Rosneft, in cerca di alleati perché esplorare e sfruttare le ricchezze dell’Artico non è impresa facile, anche tenendo conto del riscaldamento globale. Che offre un altro premio, rendendo accessibile (navigabile da giugno a metà novembre) la via commerciale marittima del Nord: 9.800 km e 18 giorni di viaggio da Murmansk alla Corea del Sud, una sfida alla via che passa dal Canale di Suez, lunga 19.700 km e 37 giorni.

La Via del Nord è di Putin.
Anche su questa Putin mette le mani avanti: in gennaio il Governo russo ha approvato il Programma statale per l’Artico, che disegnando la strategia per i prossimi sette anni suggerisce di tradurre in legge i diritti di Mosca sulla Via artica del Nord, stipulando che debba battere bandiera russa almeno il 70% dei mercantili operativi nella regione. Il presidente russo, del resto, non perde occasione per sottolineare che Mosca difenderà con determinazione i propri interessi geopolitici nell’Artico: è il Paese che ha le coste più estese lassù, e sta oltre il Circolo polare artico una parte considerevole del territorio russo. Parole accompagnate da un rafforzamento della presenza russa nella regione: infrastrutture e trasporti, stazioni meteo e basi biologiche. Ma anche installazioni militari: nel 2011 le autorità russe hanno avviato lo spiegamento della Forza artica, dopo aver rafforzato le unità di frontiera sotto la supervisione dell’Fsb, erede del Kgb. Una brigata di fanteria e la flotta di sottomarini nucleai basate a Murmansk, una base aerea per cacciabombardieri in Jakuzia. Rosatom, l’agenzia federale per l’energia atomica, ha in programma l’ammodernamento di una pattuglia che conta nove dei dieci rompighiaccio nucleari al mondo: apristrada indispensabili, per ora, alle navi mercantili lungo la Via del Nord. “Grazie alle politiche di esplorazione e produzione attuate dall’Unione Sovietica – ha detto ancora il 73enne Chilingarov alla Reuters – la nostra economia oggi è largamente basata su ciò che abbiamo sviluppato nelle regioni artiche, da Norilsk alla Chukotka. Allora non ci spingemmo in mare, ma le risorse non sono inesauribili. Il nostro compito ora è lasciare alle generazioni future le stesse chance di stabilità economica che ci ha dato l’Urss”. Se la Russia vincerà la sua battaglia per l’Artico, il 60% degli idrocarburi della regione saranno suoi.


Articolo di: di Antonella Scott da il Sole 24 Ore del 2 marzo 2013
_Thomas88_
00martedì 26 agosto 2014 11:25
Patrol Boat Riverine
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La Patrol Boat Riverine, o semplicemente PBR, era un’imbarcazione a scafo rigido utilizzata dall’US Navy per il pattugliamento ed il controllo dei corsi d’acqua e dei litorali.
Entrata in servizio nel 1966, venne largamente utilizzata in Vietnam.
La PBR aveva uno scafo in vetroresina che, unito ai due motori Detroit Diesel con idrogetto Jacuzzi, gli permetteva di operare in acque basse e piene di ostacoli. Infatti il pescaggio a pieno carico era di soli 60cm.
Queste imbarcazioni erano molto agili, capaci di virare in spazi ridotti e effettuare rapide accelerazioni e decelerazioni.
Vennero costruiti complessivamente circa 500 esemplari, divisi in due versioni: Mark I e Mark II.
La Mark I era la versione base. La Mark II era leggermente più grande della PBR base, era dotata di un sistema di propulsione migliorato che riduceva le possibilità di incaglio e montava delle protezioni in alluminio per resistere all’usura.

Caratteristiche tecniche.
La Patrol Boat River, versione base Mark I, era lunga 9.4m e larga 3.2m. La versione Mark II invece era lunga 9.8m e larga 3.5m.
La velocità massima era di 53km/h. L’equipaggio era generalmente composto da quattro uomini.
Le imbarcazioni potevano essere armate in maniera differente: una configurazione prevedeva una torretta rotante posizionata a prua che montava una coppia di mitragliatrici Browning M2 da 12.7mm, una mitragliatrice M60 da 7.62mm posizionata a poppa e un lanciagranate da 40mm posizionato sempre a poppa.
All’occorrenza, al posto del lanciagranate poteva esserci un’altra mitragliatrice M60 oppure una mitragliatrice Browning M2. Su alcune unità venne montato un cannone da 20mm e, su altre, un mortaio da 60mm.
Il ponte di comando, come anche le postazione per le M60, erano protetti da una leggera corazzatura in ceramica.

Impiego operativo.
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Le PBR vennero utilizzate in Vietnam tra il 1966 ed il 1971 per controllare il traffico fluviale del Vietnam del Sud ed intercettare i rifornimenti d’armi e materiali diretti ai Viet Cong. Si trattava dell’imbarcazione più comune della River Patrol Force, la Task Force 116.
Nel momento di massimo dispiegamento ne vennero impiegate contemporaneamente circa 250.
Venivano utilizzate spesso in prima linea, come nel delta del fiume Mekong o lungo il fiume Saigon. Per questo motivo erano coinvolte continuamente in scontri a fuoco con le truppe di terra e le imbarcazioni nemiche.
Le PBR, oltre per intercettare e bloccare i rifornimenti di armi del nemico, venivano utilizzate per inserire ed estrarre gli uomini dei Navy SEAL dalle zone di combattimento.
La 458th Trasportation Company dell’US Army utilizzò queste imbarcazioni per il trasporto di munizioni, equipaggiamenti e viveri.
Dopo la fine della guerra le PBR vennero ritirate e solamente una ventina di Mark II rimasero in servizio.
(richard)
00martedì 26 agosto 2014 13:19
Storia dei carri armati



(richard)
00mercoledì 27 agosto 2014 14:05
Russian army / Super Tank T-90

Il piu' poderoso dei carri russi in azione!




I 6 migliori carri armati del mondo [SM=g3061043]



(richard)
00giovedì 28 agosto 2014 11:24
D-Day: Lo sbarco ora per ora

Il termine D-Day viene usato genericamente dai militari anglosassoni per indicare semplicemente il giorno in cui si deve iniziare un attacco o una operazione di combattimento, ma viene spesso usato per riferirsi allo sbarco in Normandia del 6 giugno 1944, che segnò l'inizio della liberazione dell'Europa continentale dall'occupazione tedesca durante la seconda guerra mondiale. [SM=g3061043]

(richard)
00venerdì 29 agosto 2014 14:21
il primo carro armato della storia che fu .......

Progetto del Carro Armato di Leonardo da Vinci

(richard)
00domenica 31 agosto 2014 09:15
Tiger I. Carro armato pesante.

Protagonista delle forze corazzate tedesche nel secondo conflitto mondiale.

Il Panzer VI Tiger I (abbreviazione di Panzerkampfwagen VI Tiger I, numero di identificazione dell'esercito Sd.Kfz. 181) fu uno dei più famosi carri armati pesanti prodotti dalla Germania durante la seconda guerra mondiale. Sviluppato nel 1942 in risposta ai mezzi corazzati messi in campo dall'Unione Sovietica, fu il primo carro armato della Wehrmacht a montare un cannone da 88 mm e venne impiegato, solitamente in battaglioni corazzati indipendenti, in tutti i fronti di guerra.

(richard)
00lunedì 1 settembre 2014 12:30
Armi D'Elite - Fucili Da Cecchino

Fucili Da Cecchino

Armi micidiali in mano ad uomini speciali!! [SM=g3061043]

(richard)
00martedì 2 settembre 2014 18:05
armi dal futuro

Riprese dal vivo nella guerra in Iraq

armi sperimentali: laser ed onde d'urto

_Thomas88_
00mercoledì 3 settembre 2014 18:58
Interessante il documentario sulle nuove armi (laser, microonde, ecc).
Mi sono guardato tutte e tre le parti.
(richard)
00mercoledì 3 settembre 2014 20:26

Gli Americani non per niente sono......."AMMERICANI".....alla Alberto Sordi!!! [SM=g3061043]
(richard)
00domenica 7 settembre 2014 10:32
una carrellata delle armi moderne in dotazione agli eserciti



top 20.i migliori fucili d'assalto al mondo [SM=g3061043]

(richard)
00venerdì 12 settembre 2014 14:53
Armi Del Futuro - "Armi Intelligenti" Parte1

Delta.Force
00venerdì 12 settembre 2014 19:50
Re: armi dal futuro
(richard), 02/09/2014 18:05:


Riprese dal vivo nella guerra in Iraq

armi sperimentali: laser ed onde d'urto




Veramente un ottimo video, complimenti richard. Il fatto che si siano presi la briga di raschiare il terreno e sostituirlo con altra terra vergine dice molto. Tutto questo getta un ombra sinistra sui casi di mutilazioni animali, su quello di Canneto di Caronia ma anche su altra roba.


(richard)
00domenica 14 settembre 2014 11:05
Le 10 armi più potenti del mondo

_Thomas88_
00domenica 26 ottobre 2014 15:48
C’è un sottomarino russo in Svezia?
Forse non molti lo sanno ma questa settimana nelle acque svedesi si è svolta una caccia ad un sottomarino fantasma degna del miglior libro di Tom Clancy e che ci ha riportato indietro negli anni fino alla Guerra Fredda.

Questo articolo è del 22 ottobre.


La storia di sospetti, misteri e teorie fantasiose che sta facendo litigare Svezia e Russia, e che sembra uscita dagli anni della Guerra Fredda

Da qualche giorno i giornali di mezzo mondo si stanno occupando di una storia piuttosto strana e ancora molto misteriosa: un “retaggio della Guerra Fredda”, l’ha definita il Washington Post. La storia è questa, in sintesi: al largo delle coste della Svezia è stato avvistato un sottomarino straniero che si sospetta appartenere alla Russia. Il governo russo ha negato di aver violato le acque territoriali svedesi, e fonti del ministero della Difesa russo hanno detto che si tratta probabilmente di un sottomarino olandese. Il governo olandese ha a sua volta smentito, dicendo che l’esercitazione militare che stava svolgendo in Svezia si è conclusa venerdì e al momento del primo avvistamento il mezzo olandese Bruinvis si trovava già ancorato a Tallinn, in Estonia.
Col passare dei giorni le segnalazioni – e le teorie – sono aumentate: per esempio alcuni giornali locali hanno scritto che nell’arcipelago svedese è stato avvistato un uomo “vestito di nero”, che dicono (piuttosto fantasiosamente) potrebbe essere una spia russa. Altri giornali locali hanno ricostruito la storia in maniera diversa: hanno scritto che i militari svedesi hanno intercettato una richiesta di aiuto da un sottomarino russo che probabilmente è rimasto in qualche modo incagliato sott’acqua. Il giornale Snenska Dagbladet ha scritto invece che la Svezia ha intercettato messaggi criptati tra l’arcipelago di Stoccolma e Kalingrad, l’enclave russa tra Polonia e Lituania con accesso al mar Baltico dove si trova il quartier generale della flotta russa nel Baltico.
La realtà, almeno finora, è che non ci sono prove definitive della presenza del sottomarino nelle acque territoriali della Svezia, e tantomeno della sua eventuale provenienza. La storia ha comunque già provocato una rapida e significativa reazione da parte del governo svedese. Il ministro della Difesa della Svezia ha detto che una squadra militare di 200 persone ha cominciato le ricerche del sottomarino – soprattutto nei pressi di Stoccolma – affiancata anche da elicotteri e navi dragamine. Secondo il governo svedese si tratta del più grande impiego di forze in un’operazione di questo tipo dalla fine della Guerra Fredda.
Ci sono dei precedenti: diversi giornali svedesi hanno ricordato come negli anni Ottanta, in piena Guerra Fredda, i russi furono accusati diverse volte di avere mandato propri sottomarini nelle acque territoriali della Svezia. L’episodio più famoso accadde nel 1981 ed è ricordato come l’incidente “Whisky on the rocks”: un sottomarino sovietico si incagliò nelle acque vicino a una base navale svedese a Karlskrona, sulla costa baltica meridionale. Si trattava di un sottomarino di classe Whisky, che non trasportava armi nucleari (anche se si sospettò il contrario), ma l’incidente fece aumentare i sospetti che alcune navi del Patto di Varsavia svolgessero attività di spionaggio nelle acque svedesi. Nel 1990 uno studio [PDF] diffuso dal think tank statunitense Rand Corporation sostenne che l’Unione Sovietica aveva “condotto operazioni con sottomarini nelle acque della Svezia senza sosta dalla Seconda guerra mondiale”.
La storia degli avvistamenti del sottomarino russo – rinominata da molti utenti dei social media “The Hunt for Reds in October”, simile al titolo del celebre film “The Hunt for Red October” (“Caccia a ottobre rosso”) – ha implicazioni politiche che potrebbero diventare rilevanti, soprattutto per le relazioni diplomatiche molto tese che si sono sviluppate negli ultimi mesi tra Occidente e Russia. Le tensioni non riguardano solo la crisi in Ucraina orientale: per esempio martedì la NATO – l’organizzazione per la collaborazione nella difesa che durante la Guerra Fredda era opposta al Patto di Varsavia – ha detto di avere usato un suo caccia per il secondo giorno consecutivo con l’obiettivo di intercettare un aereo militare russo che sorvolava il Mar Baltico. La Svezia non fa parte della NATO ma è membro dell’Unione Europea, formata per la maggioranza da stati membri della NATO.
All’inizio di quest’anno Wilhelm Unge, il capo degli analisti dell’unità anti-terrorismo dell’agenzia di intelligence svedese Säpo, ha detto ai giornalisti che la “Russia è il più grande agente di intelligence in Svezia”. La maggior parte degli analisti sostiene però che l’agitazione che sta creando questa storia, almeno stando alle informazioni finora disponibili, è eccessiva. Ingela Nilsson, portavoce del ministro della Difesa svedese, ha ridimensionato l’intera vicenda dicendo al New York Times: «Non penso che una persona normale abbia paura che la Russia ci possa invadere. Le persone sono molto più preoccupate per ebola».


Fonte: Il Post
www.ilpost.it/2014/10/22/sottomarino-russo-svezia/
_Thomas88_
00lunedì 3 novembre 2014 16:48
Ricercatori nell'Artico fotografano un sottomarino russo

Ritorno a parlare della "guerra" per il controllo dell'Artico, argomento che ho trattao già in passato con un paio di articoli.
Questa volta due ricercatori norvegesi si sono trovati davanti un sottomarino russo.


La foto scattata dai due ricercatori.
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Due norvegesi impiegati in un test scientifico si sono trovati davanti un battello Orenburg classe Delta mentre continua la lotta per il controllo dei ghiacci.

Sopra e sotto i ghiacci dell’Artico. I russi contro gli occidentali. Con storie da romanzo. Partiamo dall’episodio più intrigante. E’ il 16 ottobre, due ricercatori norvegesi, Yngve Kristoffersen e Audun Tholfsen impegnati in test nella zona artica annotano sul loro blog aperto a tutti: «Alla sera abbiamo avvistato una luce in lontananza. E’ risultato essere un sottomarino emerso. Queste le coordinate: 89° 17.5’ N, 172° 42.9’ W. Non siamo stati in grado di identificarlo». Però lo hanno fotografato prima che sparisse sotto il pack e l’immagine è stata pubblicata dal quotidiano Telegraph. Un frammento incredibile che ha suscitato interesse ma anche perplessità. E’ davvero andata così?

Mosca in missione tra i ghiacci.
Gli esperti hanno cercato di identificare il sottomarino. Dopo aver esaminato con attenzione la foto hanno emesso il verdetto: è il russo Orenburg della classe Delta, un vecchio battello che la Marina utilizza per gli esperimenti. Una presenza in linea con la strategia di Mosca decisa a “marcare” questo spazio strategico. Il Ministero della Difesa ha appena annunciato la futura apertura di 10 stazioni radar e di 13 piste, con l’invio di militari e scienziati. Poche settimane fa, una flottiglia composta da sei grandi unità ha intrapreso una missione nella regione, in attesa di ricostruire avamposti, come quello a Kotelny, in Nuova Siberia, una base chiusa negli anni ‘90. Entro la fine del 2017 il Cremlino conta di schierare due brigate che risponderanno agli ordini del Comando Nord. Militari da impiegare in un reticolo di postazioni indicate in modo preciso dal ministero della Difesa.

Le contromosse.
I rivali di Mosca fanno le loro contromosse. Le forze di Canada, Usa, Norvegia sono molte attive. Oslo ha spesso mobilitato la sua nave per l’intelligence, la Marjata. Un’unità zeppa di apparati elettronici, in grado di monitorare anche le attività subacquee. A bordo 16 marinai ed una trentina di tecnici. I russi l’hanno ribattezzata “Masha” e, in questi anni, l’hanno tenuta d’occhio. Tra un paio d’anni i norvegesi contano di schierare la nuova Marjata. E’ stata costruita in Romania e successivamente trasferita in Norvegia per l’allestimento, con un passaggio attraverso il Bosforo che non è sfuggito agli appassionati di questioni navali. Una “macchina” poderosa, assicurano gli analisti, che potrebbe essere integrata nel sistema di difesa statunitense. Giochi di spionaggio in acque gelide. Con incursioni e avvistamenti veri o presunti di battelli “nemici”. L’ultimo caso ha riguardato la Svezia che ha denunciato la violazione delle proprie acque territoriali da parte di un misterioso minisub, forse russo. Accusa respinta da Mosca.

Passi indietro.
Come abbiamo raccontato su Corriere.it in settembre, gli Stati Uniti hanno trasferito di recente grandi quantità di materiale bellico in Norvegia, blindati e tank posizionati in enormi caverne e pronti all’uso in caso di un aggravamento della crisi. Nuovi mezzi che si aggiungono a quelli trasferiti nel corso degli anni. Inoltre i sottomarini nucleari Usa hanno condotto esercitazioni nella regione artica dove l’avversario erano, ovviamente, gli “squali” russi. Missioni alle quali è stato dato un grande risalto mediatico per mandare un messaggio al Cremlino. E’ chiaro che nessuno è disposto a fare passi indietro.


Fonte: Corriere della sera.it
_Thomas88_
00mercoledì 3 dicembre 2014 16:48
Ultime notizie dalla guerra allo Stato Islamico.
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La bomba sporca dell’ISIS.

Un jihadista britannico, Hamayun Tariq, 37 anni, originario di Dudley nelle Midlands occidentali e da mesi in Siria, ha reso noto sul web che lo Stato Islamico sarebbe in possesso di una cosiddetta “bomba sporca”. Secondo l’edizione domenicale del tabloid Daily Mirror l’arma sarebbe stata realizzata con 40 chili di uranio trafugato dai depositi dell’università di Mosul, la seconda città irachena conquistata in giugno dagli uomini di Abu Bakr al-Baghdadi. Una “bomba sporca” o “arma radiologica” è un ordigno realizzato con un nucleo di esplosivo convenzionale circondato da uranio o altro materiale radioattivo capace di contaminare un’area di diverse centinaia di metri di raggio. Fonti dei servizi di sicurezza britannici valutano che sia quasi impossibile fare arrivare un’arma simile in un Paese occidentale, mentre sarebbe facile impiegarla in Iraq o Siria. Non è certo la prima volta che circolano notizie circa il possesso di “bombe radiologiche” da parte dell’IS. Il furto del materiale radioattivo a Mosul era stato reso noto per primo dall’ambasciatore iracheno all’Onu, Mohamed Ali Alhakim, in una lettera inviata l’8 luglio scorso al Segretario generale Ban Ki-moon.

Fonte: AnalisiDifesa.it



L’esercito fantasma di Baghdad.

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Sembra impossibile ma nell’esercito iracheno ci sono almeno 50 mila soldati fantasma, cioè inesistenti ma che vengono comunque pagati. Cioè qualcuno prende lo stipendio al posto loro.
Il tutto è emerso da un’indagine voluta dal governo di Haider al-Abadi. Le indagini sono ancora in corso e potrebbero scoprire altri soldati inesistenti, quindi la cifra potrebbe essere anche maggiore.
Questo è un ulteriore dato che dimostra quanta corruzione ci sia nelle forze armate irachene, nelle quali gli USA e gli alleati europei hanno investito miliardi di dollari.
Lo scandalo dei soldati fantasma era già emerso nel 2004 quando i consiglieri militari della Coalizione che stavano formando il nuovo esercito iracheno avevano riferito di come i comandanti di reggimenti e brigate gonfiassero gli organici dei reparti per incassare gli stipendi dei soldati inesistenti. Oltre a questo, gli ufficiali chiedevano anche il pizzo ai propri soldati che dovevano versare loro parte della paga.
Al-Abadi ha detto che quella di far cessare la pratica dei soldati fantasmi è una priorità e che tutti i responsabili di questo fenomeno verranno identificati e puniti. Da quando ha assunto il potere al-Abadi ha cacciato e sostituito decine di ufficiali che erano operatiti negli anni in cui è stato primo ministro il suo predecessore, Nouri al Maliki.

Fonte: www.analisidifesa.it/2014/12/baghdad-scopre-solo-ora-di-asvere-un-esercito-f...




Pentagono: "Anche Teheran impegnata in raid contro ISIS.”

Gli attacchi aerei contro i jihadisti sarebbero però gestiti dall'Iran in maniera indipendente: Intanto la coalizione occidentale annuncia: "Fermata l'avanzata dello Stato islamico in Iraq e Siria."

Anche i caccia iraniani sono impegnati in una campagna di bombardamenti sulle postazioni dell'ISIS in Iraq. La notizia arriva direttamente dal Pentagono che conferma, così, le indiscrezioni che circolavano da tempo su un aiuto di Teheran nella lotta ai jihadisti.

"Abbiamo indicazioni che l'Iran ha condotto attacchi aerei contro l'Isis in Iraq usando jet da combattimento", ha detto il portavoce del Pentagono, l'ammiraglio John Kirby, all'emittente Abc News.

Pentagono: "Raid iraniani gestiti da Teheran autonomamente" - Pare che gli attacchi aerei siano stati condotti nei giorni scorsi contro postazioni dei jihadisti nella provincia di Diyala, nell'est dell'Iraq, al confine con l'Iran. Kirby ha poi precisato che i raid di Teheran sono condotti in maniera indipendente, gestiti dal governo iracheno, e non coordinati con gli USA. "Non è cambiato nulla riguardo alla nostra politica in base alla quale non coordiniamo le nostre attività con gli iraniani", ha sottolineato il portavoce del Pentagono.

La coalizione: "Fermata l'avanzata in Iraq e Siria" - La campagna della coalizione contro lo Stato islamico "comincia a ottenere risultati. L'avanzata degli estremisti in Iraq e in Siria è stata fermata". Così dice un comunicato che è stato diffuso al termine della riunione ministeriale, a Bruxelles, dei sessanta Paesi che compongono la coalizione anti-ISIS.

Fonte: tgcom24
www.tgcom24.mediaset.it/mondo/iraq-pentagono-anche-teheran-impegnata-in-raid-contro-isis-_208259920140...
_Thomas88_
00lunedì 15 dicembre 2014 16:13
L'uccello-bomba e altre cospirazioni che coinvolgono i volatili
La storia che posto oggi è davvero curiosa...La vicenda è accaduta in Afghanistan ma non si è trattato di un caso isolato.
In passato sono avvenuti fatti simili.



La polizia afghana ha abbattuto un'otarda pensando che fosse carica di esplosivi. Era un equivoco, ma l'ossessione per gli animali-spia è antica quasi quanto la guerra.

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L'otarda uccisa dalla polizia nel nord dell'Afghanistan. Fotografia da Khaama Press.

La notizia è di qualche giorno fa, riportata da NBC News e ripresa dai media di tutto il mondo (italiani compresi): la polizia afghana avrebbe trovato un uccello "non originario della zona e più grande di un'aquila" dotato di ordigno esplosivo.
L'uccello era stato sorpreso dai poliziotti mentre camminava su una strada principale nella provincia settentrionale di Faryab, dove l'attività dei Taliban è ancora intensa. Insospettiti dalla presenza di un'antenna i poliziotti hanno deciso di giustiziare sul posto il potenziale nemico, rinvenendo pezzi di oggetti metallici.
Solo che a una più vicina ispezione la "bomba" è risultata essere costituita da un tracciatore GPS dotato di batterie solari, da un'antenna per una migliore ricezione del segnale, da una piccola telecamera e da una targhetta metallica che riportava
i dettagli di un'agenzia ecologica dell'Uzbekistan (ECCH), responsabile di un progetto di reintroduzione dell'ubara asiatica, o otarda di McQueen (Chlamydotis macqueenii).
L'eccesso di zelo della polizia afghana, a dire la verità, non è del tutto ingiustificato perché altri animali sono stati usati per portare bombe. Nel 2013 una bomba legata a un asino ha ucciso, sempre in Afganistan, un poliziotto (e l'asino stesso) e ferito tre civili, mentre nel 2009 un simile attentato, sempre per mezzo di un asino, fallì solo per un pelo: alcuni soldati inglesi spararono all'animale carico di esplosivi prima che raggiungesse il trasporto truppe corazzato contro cui era stato indirizzato dai guerriglieri.
La differenza è che mentre un asino pesa circa un quintale e mezzo e può portare 50 chili o più di esplosivo, un maschio di otarda maschio ne pesa solo un paio e difficilmente può trasportare più di un terzo del proprio peso. Inoltre si tratta di un uccello selvatico: difficile prevedere in che direzione si dirigerà. Se la polizia afghana può essere marginalmente giustificata per i suoi timori, lo sono di meno i media occidentali che per qualche giorno hanno continuato a dare per certa l'ipotesi dell'uccello-attentatore suicida, senza prima verificare o almeno controllare i video: qualunque ornitologo avrebbe capito subito che i componenti della presunta bomba non erano tali.
Diffondere notizie del genere senza verificarle rende sospetto qualunque animale da cui sporga un'antenna di un GPS satellitare. Non ci si aspetta che dei soldati siano in grado di distinguere un raro animale da poco reintrodotto, anche se l'ubara era già assurta agli onori delle cronache perché Osama bin Laden amava cacciarla (su invito di alcuni politici pakistani). Ci si aspetta però che i media verifichino le notizie e non diffondano il panico tra i soldati al fronte. Per gli scienziati tracciare gli animali e avere in tempo reale notizie sulle loro rotte migratorie e sul loro destino dopo il rilascio è parte vitale della ricerca, e in molti casi aiuta non solo a saperne di più su di loro ma anche a proteggerli meglio.

Uccelli israeliani.

Ciononostante, i casi di abbattimenti di uccelli rari "colpevoli" di portare un GPS con antenna sono molti, anche se spesso non fanno notizia. Fanno notizia quando la targhetta di identificazione proviene da posti conflittuali come le università israeliane, in un gioco politico che male si sposa con la scienza.
Nel 2012, in Darfur, le autorità sudanesi sorpresero e arrestarono un individuo proveniente da Israele, nome in codice PP0277, lo arrestarono e gli sequestrarono l'equipaggiamento che consentiva agli israeliani di seguire i suoi spostamenti sul campo. Il problema è che PP0277 non era uno 007 del Mossad ma un tipo di avvoltoio detto grifone, uno di cento rilasciati e monitorati dall'università Ebraica di Gerusalemme e dal Servizio Natura Israeliano, dotato anche lui di GPS a batterie solari, ma non di telecamera.
Il grifone era incluso in un programma scientifico per studiare le quote e le traiettorie di volo di questi uccelli spazzini nell'Africa del Nord. I giornali riportarono la notizia dell'avvoltoio-spia e ne seguì un incidente diplomatico tra Israele e il Sudan. Non è noto il destino del giovane grifone. Un altro grifone israeliano fu arrestato l'anno precedente in Arabia Saudita con l'accusa di spionaggio e "complotto sionista". Anche a voler essere complottisti, ci si dovrebbe chiedere cosa se ne farebbe il Mossad, avendo a disposizione tecnologia sofisticata in grado di monitorare il territorio via satellite, delle decine di foto di capre morte e interiora di cammello che si può immaginare vengano scattate da una telecamera installata su un grifone.
Il timore di essere spiati da uccelli-007 israeliani non si ferma ai grifoni: un avvoltoio egiziano e un pellicano bianco, entrambi dotati di sistemi di tracciamento applicati in Israele a scopo scientifico, furono fermati in Sudan nei tardi anni Settanta e Ottanta del secolo scorso. Un gruccione e un gheppio, semplicemente dotati di anello di riconoscimento applicato in Isreale, furono invece "arrestati" in Turchia rispettivamente nel 2012 e 2013 col sospetto di contenere microchip-spia. Il gruccione in realtà era morto quando fu trovato ma l'anellino con la scritta "Israele" fu sufficiente a chiamare in causa un'unità antiterrorismo, secondo quanto riportato dalla BBC, e a suscitare ondate di teorie complottiste.

La lunga storia dei volatili da guerra.

L'ossessione degli uccelli da guerra ha radici antiche, come dimostra la fotogalleria che vi abbiamo proposto a marzo. I colombi viaggiatori sono stati a lungo impiegati per scambiare messaggi e ordini al fronte e, durante la seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti si imbarcarono in un programma chiamato "Project Pidgeon" finalizzato a usare colombi kamikaze per guidare e correggere la rotta dei missili. Il progetto non andò mai in porto perché nel frattempo i tedeschi svilupparono bombe plananti teleguidate dagli aerei. In continuità con la tradizione bellica, e nell'impossibilità di usare veri uccelli, troppo imprevedibili e poco o niente controllabili, gli USA hanno ora in programma di usare dei droni-spia a forma di uccelli tipici del luogo, come ad esempio colombi, in modo che la silhouette del drone venga confusa con quella di un vero uccello. Facile che un vero uccello, magari raro, venga confuso con un drone e abbattutto.

Gli uccelli e la scienza si aggiungono in questo modo alla lunga lista di vittime causate dalle guerre volute da pochi, ma di cui molti pagano le conseguenze.


Articolo di: Lisa Signorile
Fonte: National Geographic Italia
_Thomas88_
00lunedì 22 dicembre 2014 17:36
Ultime notizie dalla guerra al terrorismo.
Iraq: forze speciali USA e miliziani IS faccia a faccia per la prima volta.
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Secondo notizie provenienti dall’Iraq, forze speciali USA (probabilmente Green Berets) sono state coinvolte per la prima volta in scontri diretti con i terroristi dell’ Islamic State (I.S.). Intorno alle ore una del mattino del 17 Dicembre, gli islamisti hanno attaccato una base dell’esercito iracheno nell’area di al-Dolab occupata da un centinaio di soldati statunitensi, che hanno risposto con armi medie e leggere ed il Close Air Support fornito da aerei F-18. I combattimenti sono durati per circa due ore, al termine delle quali i terroristi si ritiravano dopo aver subito pesanti perdite. Nessun militare USA sarebbe rimasto ucciso o ferito nel corso dell’azione.

Fonte: corpidelite.net/afm/2014/12/iraq-forze-speciali-usa-ed-lis-si-fronteggiano-per-la-prim...


I Berretti Verdi si trovano in Iraq da agosto, quando arrivarono sul Monte Sinjar, nel nord del paese, per soccorrere migliaia di Yazidi che si erano rifugiati sulle montagne per sfuggire ai miliziani dell'IS.
www.cbsnews.com/news/u-s-green-berets-plot-strategy-to-rescue-refugees-...


Dall'Iraq andiamo in Mali...


Mali: truppe francesi eliminano leader jihadista.
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Ahmed el Tilemsi, leader militare e co-fondatore del gruppo Movement for Unity and Jihad in West Africa (MUJWA), sulla cui testa pendeva una taglia di ben cinque milioni di dollari per essersi reso responsabile di attentati dinamitardi e rapimenti, e’ stato eliminato da truppe francesi nel nord del Mali nella notte del 10 Dicembre. L’operazione e’ stata effettuata nella regione di Gao, sotto il coordinamento delle forze armate del Mali.
“Una delle cose che dimostra che el Tilemsi fosse un leader di alto rango nel gruppo, e’ il fatto che quando e’ stato ucciso era accompagnato da una dozzina di combattenti a garantire la sua sicurezza”, ha detto il portavoce del Ministero della Difesa francese Sacha Mandel. Il Colonnello Gilles Jaron ha dichiarato che altri dieci terroristi sono stati “neutralizzati” (ovvero uccisi o fatti prigionieri) nel corso della stessa operazione.
El Tilemsi era tra i militanti che nel settembre 2011 si sono staccati da Al Qaeda nel Maghreb Islamico per formare il MUJWA. Il mese successivo, il gruppo ha rapito tre operatori umanitari da un campo profughi in Algeria occidentale. Nel 2012 il MUJWA ha attaccato una base della polizia a Tamanrasset e Ouargla, in Algeria, rapendo inoltre sette diplomatici algerini.

Fonte: corpidelite.net/afm/2014/12/mali-truppe-francesi-eliminano-leader-ji...
_Thomas88_
00lunedì 29 dicembre 2014 15:45
L'ISAF chiude e lascia Kabul piena di incognite
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Addio all’Afghanistan per l’ISAF, la International Security Assistance Force della Nato che per 13 anni ha affiancato le forze di Kabul nella lotta contro i talebani.
“Insieme abbiamo portato il popolo afghano fuori dal buio della disperazione e gli abbiamo dato speranze per il futuro”, ha dichiarato il comandante dell’ISAF, il generale americano John Campbell, durante la cerimonia blindata a Kabul, “per l’Afghanistan comincia una nuova fase in cui la Nato e le forze di sicurezza afghane (Ansf) lavoreranno insieme per un futuro migliore”. “Avete reso l’Afghanistan più forte e i nostri Paesi più sicuri”, ha dichiarato Campbell rivolgendosi alle truppe della forza multinazionale. La cerimonia è stata tenuta segreta fino all’ultimo per evitare attentati.

Il generale Campbell si è rivolto nel suo discorso “ai nostri nemici”, considerando che “è venuto il momento per loro di ascoltare l’appello del presidente Ghani di deporre le armi, scegliere la pace e partecipare alla ricostruzione della nazione afghana”. La risposta degli insorti non si è fatta attendere.

E il portavoce dei talebani, Zabihullah Mujahid, ha dichiarato che “i 13 anni di intervento della Coalizione internazionale sono stati un fallimento” e che “nessun negoziato con il governo del presidente Ashraf Ghani sarà possibile in presenza di soldati stranieri sul territorio afghano”.

Dal primo gennaio 2015 la missione di combattimento dell’Isaf, che ha subito 3.485 morti dal 2001, sarà rimpiazzata da una missione di addestramento e supporto della Nato, “Resolute Support”, composta da 13 mila militari di 14 nazioni ma incentrata su circa 11 mila statunitensi cui sui aggiungeranno 700 italiani, altrettanti tedeschi, 200 britannici più altri 10 contingenti minori.

Si completa così il passaggio della responsabilità della sicurezza ai 350.000 uomini dell’esercito e polizia afghani. Il timore è quello di una ripetizione dell’Iraq, dove il ritiro delle truppe americane nel 2011 ha sprofondato il Paese nel caos.

All’inizio di dicembre l’ONU ha diffuso dati preoccupanti sull’aumento delle vittime civili, sostenendo che i 3.188 morti registrati alla fine di novembre 2014 rappresentavano un aumento di ben il 19% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

A questi decessi devono aggiungersi gli oltre 4.600 soldati e agenti di polizia afghani uccisi soltanto fra gennaio e ottobre di quest’anno. Una cifra che in 10 mesi è stata superiore a tutte le circa 3.500 perdite (54 italiane) registrate dalla Coalizione internazionale dal 2001.

Fonti: AGI, AFP e ANSA.
Articolo preso da Analisi Difesa


A proposito delle vittime civili del Paese, il 2014 ha registrato un record. Ecco un approfondimento.


Il numero di vittime civili del conflitto afghano ha raggiunto un picco nel 2014, con un incremento del 19% rispetto all’anno scorso. E’ quanto emerge dal rapporto annuale della Missione di assistenza Onu in Afghanistan (Unama), in base al quale 3.188 civili sono stati uccisi fino alla fine di novembre e 6.429 sono stati feriti. “Il numero di civili uccisi e feriti quest’anno -recita il rapporto- è il più alto che sia mai stato registrato dalle Nazioni Unite. Scontri di terra che coinvolgono le truppe regolari e lo scoppio di ordigni improvvisati (Ied) sono le cause principali di queste vittime”.
Tra i feriti, il numero delle donne è cresciuto del 14% e quello dei bambini del 33%. “Le stime -dice ancora l’UNAMA – indicano che entro la fine del 2014 le vittime civili (tra morti e feriti, ndr) supereranno le 10.000, per la prima volta in un solo anno da quando l’UNAMA registra questi dati”.
Commentando questi dati, la direttrice per i Diritti umani della Missione, Georgette Gagnon, ha sostenuto che “la situazione per i civili in Afghanistan sta diventando sempre più tragica”.
L’ONU segnala che per la prima volta dall’inizio del conflitto le vittime civili provocate dagli scontri fra forze di sicurezza ed i movimenti antigovernativi hanno superato quelle causate dagli attentati e dallo scoppio di rudimentali ordigni (ied). Infine il rapporto conferma che, come negli anni passati, il 75% delle vittime sono stati colpiti dai talebani.

Fonti: Adnkronos e ANSA
Articolo preso da Analisi Difesa


Inizia quindi una nuova fase per l'Afghanistan, speriamo bene anche se le premesse non sono buone.
La strada per la pace è ancora lunga e tortuosa, piena di incognite e insidie.
Speriamo non succeda quello che è successo in Iraq.

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