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I tulpa tibetani

Ultimo Aggiornamento: 28/08/2012 15:05
07/06/2012 08:23

Come sempre in inverno, la strada che collega la Cina a Lhasa, la capitale della regione del Tibet, è, anche in quell'anno 1923, in pessimo stato; ciò non impedisce a gruppetti di viaggiatori (per lo più pellegrini che si recano alla città santa nella speranza di scorgere il dalai lama, una specie di semidio loro capo spirituale) di continuare il loro cammino, malgrado il freddo pungente e la neve che acceca.
Tra i pellegrini c'è una donna anziana, in niente diversa dalle altre contadine venute dalle province più lontane dell'impero: invece è francese e si chiama Alexandra David-Neel. La tinta scura dei suoi capelli, originariamente bianchi, è dovuta a inchiostro di china. Il colorito della pelle lo ha ottenuto spalmandovi un miscuglio d'olio, di cacao e di carbone pestato. Trent'anni prima, Alexandra David-Neel era una cantante d'opera assai conosciuta per aver ottenuto la parte di protagonista nella Manon di Massenet. Poi, si era appassionata ai viaggi, che le avevano fatto vivere molte avventure e le avevano insegnato molte cose. Durante uno di questi viaggi, per esempio, aveva incontrato un mago che l'aveva iniziata all'arte del tumo: sedersi nudi nelle nevi dell'Himalaia senza sentire freddo. Aveva anche imparato, esercitando la forza della mente, a creare dei tulpa, cioè delle forme di pensiero in grado di materializzarsi.
Per comprendere la natura di un tulpa, bisogna ricordare che i buddisti tibetani, come gli occultisti occidentali, ritengono che il pensiero non sia una semplice funzione intellettuale: ogni pensiero è legato all'esistenza di quell'"energia spirituale" che permea il mondo della materia, come i cerchi prodotti da una pietra gettata nell'acqua di un ruscello.
In genere, le onde di pensiero hanno solo breve esistenza e non hanno il tempo di venire a contatto con l'energia spirituale che penetra nel piano fisico. Ma se la paura o una passione violenta producono un pensiero più intenso, o se un pensiero è rimuginato a lungo, allora verrà permeato dall'energia spirituale e darà vita a una "forma di pensiero".
Per i buddisti tibetani, i tulpa non hanno una loro realtà: ma, del resto, neppure il mondo materiale è reale, secondo loro. Secondo la loro concezione filosofica, tutto è illusione. Ecco quanto affermava, a questo proposito, un buddista tibetano del I secolo d.C.: "Tutto è creazione dello spirito, nulla ha forma esteriore reale. E' errato pensare che le cose abbiano una forma. Ogni fenomeno nasce da errori dello spirito. Se lo spirito è indipendente da queste false idee, allora i fenomeni scompaiono".
Se la tesi dei buddisti tibetani, dei mistici e dei maghi è fondata, i casi di apparizioni cessano di essere un mistero. Essa spiegherebbe, per esempio, il fatto che un luogo in cui è stato commesso un omicidio resterebbe "abitato" dalle "forme di pensiero" dell'assassino e delle sue vittime, e che mesi o secoli più tardi queste onde di violenza o d'angoscia potrebbero essere capitate, talvolta addirittura rivissute, da soggetti particolarmente sensibili. Gli specialisti dell'occulto affermano che certi fantasmi sono dei tulpa, cioè "forme di pensiero" create deliberatamente da un mago con scopi ben precisi.
L'esistenza di "forme di pensiero" molto potenti provenienti dal passato spiegherebbe anche le numerose testimonianze di apparizioni su antichi campi di battaglia. Fenomeni di questo tipo si sono prodotti, per esempio, a Naseby, in cui si svolse una battaglia decisiva durante la guerra civile inglese; la stessa cosa si è verificata a Dieppe, teatro di un'importante azione militare nel 1942.
Un tulpa è una "forma di pensiero" estremamente potente, della stessa natura delle altre apparizioni: se ne differenzia, tuttavia, perché non è frutto del caso ma il risultato di un processo mentale, di un atto della volontà. Il termine tulpa è di origine tibetana, ma in tutto i mondo adepti del Buddismo affermano di essere capaci di creare apparizioni simili: e dicono che è sufficiente captare una parte dell'energia spirituale dell'Universo infondendole una determinata forma e poi trasferirvi un po' della propria energia vitale.
Nel Bengala, patria dell'occultismo indiano, questa tecnica è conosciuta col nome di kriya shakti ("potenza creatrice"). Fa parte delle pratiche della filosofia tantrica, un sistema magico-religioso che si interessa degli aspetti spirituali della sessualità. Tra gli adepti del tantrismo ci sono indù e buddisti.
La maggior parte delle tecniche mistiche tibetane deriva dal tantrismo praticato nel Bengala, come dimostrano chiaramente gli innegabili punti in comune esistenti tra gli esercizi fisici, mentali e spirituali dei discepoli yogi del tantrismo del Bengala e le pratiche segrete del buddismo tibetano. La pratica tibetana dei tulpa non sfuggirebbe dunque alla regola e trarrebbe la sua origine dal kriya shakti.
Per creare un tulpa, l'adepto innanzitutto sceglie una divinità, maschile o femminile, del pantheon tibetano, eleggendola, in un certo senso, a sua protezione. Occorre precisare che per i tibetani gli dei, benché siano dotati di poteri soprannaturali, sono ugualmente prigionieri del ciclo delle reincarnazioni esattamente come i più umili dei mortali. Il discepolo si ritira poi in un luogo isolato, o in un eremo, per meditare in pace sul suo yadam (il dio protettore), elevandosi alla contemplazione degli attributi spirituali per tradizione a quello associati. Nello stesso tempo, compie esercizi di visualizzazione fino a rappresentarsi distintamente, in spirito, l'immagine del dio, quale è dipinta su quadri e statue.
Per aiutarsi nella contemplazione, il discepolo salmodia senza interrompersi delle litanie attribuite al suo yidam. Intanto disegna dei kyilkhor. Spesso dipinge i motivi su carta o su legno usando inchiostri colorati, talvolta li scolpisce su cuoio o sul lamine d'argento, oppure li disegna sul terreno, con polveri di colori.
La preparazione dei kyilkhor richiede estrema attenzione, perché il minimo errore esporrebbe lo sfortunato discepolo a gravissimi pericoli, alla follia, alla morte o, ancora peggio, alla permanenza forzata per migliaia d'anni in uno degli inferni della cosmogonia tibetana. E' interessante notare che lo stesso timore è presente anche nei paesi occidentali: la tradizione esoterica non dice forse che se un mago che "cerca di evocare uno spirito" si sbaglia nel disegnare il cerchio magico protettore, rischia di essere "fatto a pezzi"?
Ma se il discepolo non sbaglia e persiste nei suoi sforzi, dopo un periodo di tempo più o meno lungo riesce a vedere il suo yidam. All'inizio è soltanto una forma vaga, avvolta nella nebbia, che compare per brevi istanti: poi, a poco a poco, si delineano i contorni e la figura prende consistenza. Il discepolo continua la meditazione, la visualizzazione della divinità, continua a ripetere le formule e a contemplare i diagrammi mistici finché il tulpa si materializza: questo diventa allora una creatura indipendente che segue il suo padrone e gli parla, se è il caso. Talvolta, il tulpa accetta anche di allontanarsi dal suo kyilkhor per accompagnare il padrone in un viaggio, diventando visibile a tutti.
Alexandra David-Neel racconta che, un giorno, "vide" uno di questi tulpa, che, fatto curioso, non si era ancora reso manifesto al suo creatore. Era il periodo in cui la ricercatrice si interessava molto da vicino all'arte buddista. Un pomeriggio, ricevette la visita di un pittore tibetano, specializzato nell'arte religiosa. Improvvisamente Alexandra David-Neel scorse alle spalle dell'uomo una forma dai contorni non ben delineati, in cui riuscì però ugualmente a riconoscere uno degli "dei della vendetta" del pantheon tibetano. Si avvicinò, tese la mano e sentì un "oggetto dolce, morbido": ma al contatto perse la consistenza. Il pittore le confidò poi che da settimane stava compiendo riti magici per riuscire a evocare la divinità di cui la donna aveva visto la forma abbozzata, e che aveva passato tutta la mattinata precedente la visita a dipingerla.


David-Neel

Molto incuriosita, Alexandra David-Neel decise di creare un tulpa di sua scelta. Per non lasciarsi influenzare dalle pitture tibetane che aveva visto durante i suoi viaggi, decise di lavorare su un'immagine che le fosse familiare: scelse quella di un buon monaco gioviale e cominciò il lavoro di concentrazione.
Si ritirò in un eremo e, per parecchi mesi, consacrò ogni minuto della sua giornata a esercizi di concentrazione e di visualizzazione. A poco a poco, il "monaco" prese forma. Divenne anche tanto "reale" da accompagnarla in uno dei suoi viaggi e da far parte del gruppo con la stessa "consistenza" di tutti gli altri compagni, agendo in modo indipendente, fermandosi per esempio a guardare intorno a sé, cosa comune a tutti i viaggiatori. Alexandra David-Neel racconta che una volta sentì le vesti del monaco sfiorarla e una mano posarsi sulla sua spalla, una sensazione difficilmente classificabile a livello di sogno.
Sfortunatamente, il "monaco" cominciò a comportarsi in modo strano, il che fece sorgere dei problemi. Perse il suo buon umore e la sua cordialità, il suo sguardo assunse un'espressione cattiva. Un giorno, un pastore venuto a portare del burro ad Alexandra David-Neel scorse il tulpa nella sua tenda e credette di aver a che fare con un monaco in carne e ossa. Poiché sfuggiva al suo controllo e stava trasformandosi in un vero e proprio incubo, la studiosa decise di sbarazzersene: le occorsero sei mesi di concentrazione e di meditazione per far tornare il monaco nelle sue dimore.

Ecco come Alexandra David-Neel racconta questa esperienza nel saggio "Mistici e maghi del Tibet"…

"... Avevo ascoltato racconti di materializzazioni e mi chiedevo se fossero pure immaginazioni. Incredula com'ero, volli fare io stessa l'esperienza, e per non farmi influenzare dalle forme impressionanti delle deità tibetane, decisi di scegliere un personaggio insignificante: immaginai un lama bassotto e corpulento, un tipo innocente e gioviale. Dopo qualche mese l'ometto era formato. Egli a poco a poco si "fissò" e divenne per me una specie di ospite permanente. Non aspettava, per apparire, che io pensassi a lui, ma si mostrava anche nel momento in cui io avevo la mente rivolta a tutt'altre cose. L'illusione era soprattutto visiva, ma mi accadde, più di una volta, di sentirmi come sfiorata dalla stoffa di un abito e di sentire la pressione di una mono posata sulla mia spalla. In quei momenti non ero in un ritiro o in meditazione: godevo come d'ordinario di eccellente salute fisica e psichica. Gradualmente, però, nel mio lama si andò operando un cambiamento. L'aspetto che io gli avevo dato si modificò, la sua complessione si fece più minuta e l'uomo prese un'espressione vagamente scanzonata e cattiva. Divenne inopportuno. In breve, sfuggiva al mio controllo. Un giorno fu un pastore a vedere il fantasma creato da me, e lo scambiò per un lama in carne e ossa. Quel fatto mi spaventò: significava che anche altri riuscivano a vedere la mia creazione. Avrei forse dovuto lasciare che il fenomeno seguisse il suo corso, ma la presenza indesiderata del lama mi innervosiva e si andava trasformando in incubo. Mi decisi perciò a dissipare l'allucinazione della quale non ero completamente padrona. Ci riuscii, ma dopo sei mesi di sforzi..."
28/08/2012 14:50


Ho sempre creduto nella potenza del pensiero ma non ero a conoscenza di questa pratica.
Lettura interessante e molto affascinante nonostante mi "inquieti" leggermente.

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Utente Master
28/08/2012 15:04

Consiglio la lettura di questo interessante articolo documentato anche fotograficamente di Felice Masi.

FENOMENI PARANORMALI (“MAGICI”) PRESSO I POPOLI PRIMITIVI

Di Felice Masi

"La Ricerca psichica" anno XII, 2005, n.3


www.ricercapsichica.it/articoli/magia1.htm



28/08/2012 15:05


Grazie infinite, Eone, l'Eterno Fanciullo.
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