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Sul domandare metafisico

Ultimo Aggiornamento: 17/04/2013 15:11
17/04/2013 15:11

Fonte: www.centrostudilaruna.it/sul-domandare-metafisico.html

L’interrogativo sull’assetto metafisico del mondo fisico, si può dire sorga con la stessa nascita dell’uomo, venendo a costituire in seguito uno dei capisaldi della filosofia: immaginiamo il primo uomo che, presa coscienza di sé stesso e del mondo circostante, comincia a chiedersi stupito – e, presumo, terrorizzato – donde venga tutto ciò che vede, e donde venga egli stesso. Ecco che dalla “meraviglia” (thaumazein) nasce il filosofare, e dunque, il domandare metafisico.

Asseriva, infatti, Aristotele nel Libro primo della Metafisica che: « È proprio del filosofo essere pieno di meraviglia: e il filosofare non ha altro cominciamento che l’essere pieno di meraviglia». E, come avrà a sostenere nello scritto sulle Parti degli animali: «in tutte le cose della natura c’è qualcosa di thaumastòn», cioè di meraviglioso, ma anche di indecifrabile. Così Giacomo Leopardi, nel suo Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, preso atto della “piccolezza” dell’uomo di fronte all’immensità della Natura veniva assalito da una congerie di domande esistenziali, che alla fine lo portavano a stupirsi della sua stessa esistenza e a chiedersi sgomento: «ed io che sono?». Similmente Blaise Pascal, nei suoi celebri Pensieri, si chiedeva inquieto: «Non so chi mi abbia messo al mondo, né che cosa sia il mondo, né che cosa io stesso. Sono in un’ignoranza spaventosa di tutto. Non so che cosa siano il mio corpo, i miei sensi, la mia anima e questa stessa parte di me che pensa quel che dico, che medita sopra di tutto e sopra se stessa, e non conosce sé meglio del resto».

Normalmente – è vero – diamo tutto per scontato, ogni cosa ci pare ovvia: l’esistenza del mondo e delle cose in esso contenute, il loro essere così e non diversamente; allo stesso modo, non ci chiediamo perché “siamo”, e perché “siamo così e non diversamente”. È solo nei momenti di disimpegno e di ozio, di inattività e – sovente – di noia autentica («noia ancora lontana – precisa Heidegger in Che cos’è metafisica? – quando ad annoiarci è solo questo libro o quello spettacolo, quell’occupazione o quest’ozio, ma affiora quando “uno si annoia”». E soggiunge: «Questa noia che rivela l’ente nella sua totalità») che ci troviamo a porci le fatidiche domande che un altro grande pensatore della filosofia occidentale, Voltaire, riteneva dovessero porsi tutte le creature dell’universo, ma a cui nessuna rispondeva, e cioè: «Chi sono? Da dove vengo? Che ci faccio proprio qui? Che diverrò?» .

Ora, interroghiamoci, ad esempio, sul corpo umano. Nei libri di testo scolastici ed universitari, i capitoli destinati all’anatomia umana si aprono spesso con il disegno di uno scheletro cui segue la figura dei polmoni, del cuore, dell’intestino, del fegato, del pancreas, ecc: il corpo è mostrato come una enumerazione di organi e di funzioni, dunque impariamo i nomi e la disposizione degli organi. Ecco come s’insegna il corpo umano a scuola. Ma ciò ha ben poco a che vedere con il “nostro corpo”, per cui sovente gli studenti conoscono per filo e per segno, ad esempio, tutte le oltre duecento ossa dello scheletro, ma non sono consci d’averle anche loro. Ciò per dire che non è la semplice conoscenza descrittiva a dar luogo alla comprensione, ma lo è piuttosto una ferma presa di coscienza che scaturisce da una domanda sentita interiormente.

La domanda metafisica, infatti, come quella di Antonio Lubrano (mi si passi la battuta!): «nasce spontanea». Non è esterna a noi stessi come le domande che ci vengono poste a scuola. La domanda metafisica (che come ogni domanda, richiede una risposta) “accade” quando ci eleviamo dall’heideggeriano dominio della chiacchiera (in cui, generalmente, sin dall’infanzia è confinata la nostra esistenza), caratterizzato dal rifiuto a priori della ricerca di un fondamento e di un perché delle cose e dalla routinaria scontatezza del vivere quotidiano, e cominciamo a ricercare il senso di ciò che è. Generalmente questo può avvenire a causa di un evento traumatico, come il trovarsi faccia a faccia con la morte, o con aspetti dell’esistenza che prima c’erano ignoti. Si verifica allora una rottura della normale consequenzialità logico-descrittiva della realtà, che ci pone dinanzi alla meraviglia terribile dell’Esistenza, facendo vacillare le nostre certezze e i nostri pre-giudizi.

Forse – azzardo – è proprio per sfuggire ad una tale “visione” che la società – soprattutto quella moderna – ha fatto di certi temi (quello della morte su tutti) un tabù, rinunciando, a priori, a porsi determinati quesiti, preferendo gettarsi a capofitto nei ritmi frenetici dettati dall’economia e dunque nell’alienazione. Ha fatto ciò per sfuggire all’horror vacui: meglio non pensare a noi stessi – ci si è detti – meglio buttarci al di fuori di noi, meglio ubriacarci di lavoro, di diversivi, di hobbies, di futuro, piuttosto che ritrovarci – come il primo uomo – dinanzi alla nuda e cruda realtà dell’Essere, e magari soffrire di quell’Angst, quell’angoscia esistenziale, di cui ebbe a parlare Heidegger, dinanzi alla quale la paura per i cosiddetti “affanni quotidiani’’ appare cosa tanto risibile. In quanto, dinanzi alla domanda di senso non si può essere indifferenti, le domande di senso non sorgono per pura curiosità, il domandare metafisico è sempre un domandare per cui “ne vale di noi stessi”, è un pugno nello stomaco che esige ardentemente risposta. Metafisica is only for the brave, se non ci si è portati meglio pensare allo spread, a Monti, a Grillo, e alle baruffe della “politica”.
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