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Il caso Strieber

Ultimo Aggiornamento: 13/12/2009 09:11
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13/12/2009 09:11

Notiziario UFO n° 33 – Giugno 2002



Il caso Strieber

Un Nobel da UFO


Cosa direste se un vincitore del premio Nobel per la chimica, vi dicesse che forse è stato rapito dagli UFO?


Alcune persone vivono esperienze tanto bizzarre, da esser portate ad attribuirle ad interventi alieni, incontri ravvicinati del primo, secondo o terzo tipo (come se tali interventi dovessero necessariamente ricadere in una di queste categorie). Io stesso ho avuto una di queste esperienze. Sostenere che si è trattato di un intervento extraterrestre può suonare eccessivo, ma giudicarla semplicemente un’esperienza insolita significa minimizzare. Diciamo che è stata estremamente insolita.
Nel 1975 comprai del terreno nell’entroterra di Mendocino County, in California, lungo il fiume Navarro. Anziché battezzare la proprietà “Gli Abeti”, “La Collina del Sole”, o “Casa Mullis”, la chiamai “L’Istituto per gli Studi Ulteriori”. Successivamente, ne ribattezzai una parte “Coltivazione automatica di alberi Il fuoco e la Rosa”.
Questo tipo di coltivazioni godeva di vantaggi fiscali e io piantavo davvero degli alberi che crescevano automaticamente, traendo l’acqua necessaria da uno stagno che funziona da cisterna. Diventai così un coltivatore di alberi. E lo sono tuttora. Non ebbi mai il coraggio di tagliarli, quindi non ho potuto dimostrare di averne tratto alcun profitto entro cinque anni, e adesso non posso più rivendicarlo. Però l’America è più forte grazie ai miei alberi, e io ne sono orgoglioso, anche se gli affari mi sono andati male. Tuttavia credo che questo non abbia niente a che vedere con il fatto che una notte fui rapito da esseri misteriosi. Sono relativamente sicuro che non si trattasse di agenti delle tasse.
All’epoca vivevo a Berkeley, e raggiungevo la mia proprietà ogni venerdì sera. Una sera del 1985 vi arrivai verso mezzanotte. Ero solo in macchina e avevo superato il test pratico di sobrietà, essendo riuscito ad attraversare le montagne. Accesi le luci in cucina, posai la spesa sul pavimento e afferrai una pesante torcia nera. Ero diretto al gabinetto, che si trovava in fondo alla collina, a meno di venti metri dalla capanna. Alcuni pensavano che di notte fosse un po’ impressionante ma io no. A me piaceva la notte, non mi dispiaceva sedere al buio sulla seggetta di legno rosso fatta su misura e sentire i gufi giù nella valle. Ma quella notte non riuscii nemmeno ad arrivarci.
Il sentiero che porta al gabinetto si dirige verso est, e poi vira bruscamente a nord, dopo qualche gradino scavato nella terra, proseguendo in piano per sei o sette metri. Scesi gli scalini, girai verso destra e là in fondo al sentiero, sotto un abete, vidi qualcosa che brillava. Puntai la torcia, notando solo che la cosa appariva più bianca nel punto in cui veniva colpita dal raggio di luce. Sembrava un procione. Più tardi, mi chiesi se non si fosse trattato di un ologramma, proiettato da Dio sa dove. Il procione mi rivolse la parola: “Buonasera, dottore”, mi disse. Gli risposi, non ricordo esattamente cosa. Forse “Salve!”.

La cosa successiva che mi ricordo è che era mattina presto, e stavo camminando su una strada che saliva da casa mia. Quello che pensai mentre tornavo verso casa fu: “Cosa diavolo sto facendo qui?”. Non avevo alcun ricordo della notte precedente. Pensai che forse ero svenuto, e avevo trascorso la notte all’aperto. Ma le notti estive a Mendocino, sono umide, mentre i miei vestiti erano asciutti e perfettamente puliti. Nella capanna le luci erano fioche. Mi affrettai a spegnere l’interruttore. A molte miglia dalla Pacific Gas and Electric, disponevo dei miei pannelli solari e di un paio di batterie, una sistemazione adeguata ma non lussuosa. Dovevo sempre far attenzione alla luce. I sacchetti erano ancora sul pavimento, e cominciai a mettere a posto la spesa. La spremuta di arancia comprata al Safeway di Healtdsburg non era più ghiacciata. Pian piano gli avvenimenti della notte precedente cominciavano a tornarmi alla memoria. Ricordai che stavo andando al gabinetto con la mia bella torcia nuova. Dove diavolo era finita?
D’un tratto, mi tornò in mente: il procione luminoso che parlava. Era successo davvero? Il ricordo era nitido. Per quanto la mia mente lo consentisse a quell’ora di mattina. Rammentavo bene quello stronzetto e il suo saluto così formale. Mi ricordavo i suoi furbi occhietti neri e l’effetto della mia torcia sulla sua faccia che emanava luce. Dove era finita la torcia?
Mi incamminai di nuovo verso il gabinetto, senza il timore di imbattermi in qualcosa di spaventoso. Volevo che quel maledetto procione fosse ancora lì. Ma non c’era, e neanche la mia torcia. Avevo la sensazione che non ci sarebbe stato niente. Che mi sarei sentito svuotato, frustato e confuso. Era proprio così che mi sentivo.
E avevo anche sonno. Tornai verso casa, mi buttai sul letto e dormii per diverse ore. Quando mi svegliai, l’esperienza assunse un aspetto molto più reale. Cercai ancora una volta la torcia, ma non riuscii a trovarla, nemmeno quando estesi le ricerche in tutta la proprietà. C’erano dei faretti – i miei vestiti asciutti, le luci rimaste accese tutta la notte, la torcia – che non potevo negare, eppure non mi spaventai. Non chiamai nessuno, perché non avevo il telefono. La vicenda mi lasciava molto perplesso.
Continuai a cercare la torcia, senza successo. Decisi di dedicarmi alle mie occupazioni quotidiane. Sembrava non ci fosse modo di fare ulteriori indagini, e la cosa più strana era che la cosa non mi preoccupava come avrebbe dovuto. Avevo intenzione di ripulire un condotto: nella parte più bella del mio bosco c’è una sorgente la cui acqua normalmente scorre attraverso una tubatura e va ad alimentare uno stagno. La settimana prima mi ero accorto che il condotto doveva essere ripulito, così, nel tardo pomeriggio mi avviai verso il boschetto – che cominciava a circa 200 metri da casa, oltre un pascolo – portando con me qualche attrezzo. Appena arrivato all’ombra degli alberi cominciai ad avere paura. Invertii la direzione e camminai il più velocemente possibile verso la luce. Non mi misi a correre, né guardai indietro: mi limitai a camminare velocemente. Non volevo far capire che ero spaventato. Quando fui arrivato allo scoperto, mi girai e guardai il bosco: “Cosa diavolo sto facendo?”. Non ne avevo idea, ma non avevo comunque nessuna intenzione di tornare là. Ogni volta che guardavo in quella direzione ne ero sempre più certo.
Qualunque cosa mi fosse accaduta la notte precedente doveva essere successa lì, in quel bosco. Mi venne in mente che la strada sulla quale stavo camminando quel mattino, quando ero tornato in me, andava verso casa da quella direzione. Filai diritto a casa e non tornai più indietro. Non raccontai a nessuno questo episodio.
Sei mesi dopo, mi trovai a passeggiare in quello stesso bosco con i miei figli, di cinque e otto anni. In loro compagnia mi sentivo più a mio agio. Passammo qualche ora nel bosco, e ripulii il condotto. Ma per un certo tempo non tornai là da solo, e ancora oggi non ne parlo con nessuno.
Era strano avere una parte della mia proprietà in cui non mi sentivo a mio agio. Trascorrevo molto tempo da solo a Mendocino: perché, all’improvviso, avevo sviluppato un timore irrazionale nei confronti di un luogo che mi era sempre piaciuto?
Passarono un paio di anni. Un sabato notte in cui ero lì per il weekend decisi di prendere in mano la situazione e di mettere in atto una sorta di terapia. Quel pomeriggio avevo deciso di dare un’altra ripulita a quel maledetto condotto. Avevo messo insieme gli attrezzi, ma non ero riuscito ad andare là. Quella notte, invece di andare a ballare al saloon Rose Bud, mi sarei dedicato alla psicoterapia.
Avevo comprato un’altra torcia di metallo nero per rimpiazzare quella che avevo perso, e l’avevo attaccata con il nastro adesivo sulla canna di un AR-15. Grazie a Dio, non tutti possiedono un’arma del genere. Io ero stato esonerato dalla guerra nel Vietnam, e ne avevo vista una la prima volta quando un amico la portò con sé a Mendocino. Sembrava un giocattolo della Mattel, ma Ron mi assicurò che non lo era. Il caricatore conteneva circa venti proiettili, e li sparava a ripetizione ogni volta che si premeva il grilletto. Era legale, e mi faceva piacere averla, dato che la capanna era isolata e priva del telefono. Con una torcia potente, attaccata con il nastro adesivo nero alla canna dell’AR-15, mi sentivo come John Wayne. Camminai fino al bosco, mi fermai sotto i primi alberi e urlai verso il buio: “Questa è la mia proprietà, e sto arrivando. Se qualcosa si muove, sparo. E anche se non si muove niente, potrei sparare lo stesso. Mi sono rotto le palle”. Stavo gridando veramente forte: “Fuori dai miei boschi! Ora! Se non potete muovervi, gridate, forse avrò pietà di voi. Forse no. Fuori dai coglioni!”. John Wayne non avrebbe detto “coglioni”, ma i tempi sono cambiati.
Avevo la sensazione che urlando in questo modo avrei, se non altro, allontanato chiunque fosse lì per caso. Ma urlare faceva anche parte della terapia. Il raggio di luce emesso dalla mia torcia penetrava nella parte più oscura del bosco. Ero a meno di venti metri da un vecchio, enorme albero di alloro cavo, che cresceva vicino a una piccola cascata piena di felci. Era bellissimo, ma era diventato anche il centro delle mie paure. Al mio fianco John Wayne, con in testa lo stesso genere di cappello che avevo indossato per l’occasione, dichiarò: “Diamogli quello che si meritano, ragazzo”. Aprii il fuoco con l’AR-15 e crivellai di colpi l’area dove si trovava l’alloro. “Spediscili all’inferno, ragazzo!”.
Svuotai un caricatore e ne inserii un altro, e intanto mi aggiravo urlando e sparando a tutto quello che appariva scuro. Non sparai in aria: non sono un individuo antisociale.
La psicoterapia risultò molto efficace. Sperando di non aver perforato il tubo dell’acqua uscii dal bosco convinto che la mattina dopo sarei potuto tornare, senza AR-15 e senza cappello. E così fu.
Qualche tempo dopo mi trovavo in una libreria di La Jolla, quando notai un libro di hitley Strieber, intitolato Communication. Sulla copertina c’era un disegno che attrasse la mia attenzione: una testa di forma ovale, con grandi occhi scuri che guardavano fisso in avanti. Comprai il libro, e cominciai subito a leggerlo. Strieber, l’autore, raccontava di essere stato rapito dagli alieni. Scriveva di essersi svegliato nella sua capanna nei boschi dello Stato di New York, di aver visto un gufo che lo fissava, e di avergli rivolto la parola. Dopo di che due esseri simili a quello rappresentato sulla copertina del libro erano apparsi sulla porta e lo avevano accompagnato fuori. Strieber diceva di aver sentito intorno a loro odore di cannella e di formaggio bruciato, così provai a bruciarne un po’ per vedere se riuscivano a evocare qualche ricordo. Ma inutilmente.
Mentre stavo leggendo il libro, mia figlia Louise mi telefonò da Portland: “Papà, c’è un libro che vorrei farti leggere: si chiama Communication”. “Lo sto leggendo proprio adesso”. Allora cominciò a raccontarmi cosa le era successo a Mendocino. Una sera era arrivata alla capanna molto tardi, con il suo ragazzo. Era scesa giù per la collina, proprio come avevo fatto io. Ed era sparita per tre ore. Il suo ragazzo l’aveva cercata freneticamente dappertutto e chiamandola a gran voce, senza riuscire a trovarla.
La prima cosa che ricordava era di essersi ritrovata sulla stessa strada su cui mi ero trovato io, e di aver sentito il fidanzato che la chiamava per nome. Non aveva idea di dove fosse stata.
Quando aveva visto il libro, aveva avuto la stessa sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa di vagamente noto che avevo avuto io. Quando ebbe finito di raccontarmi la sua storia, le parlai dell’esperienza che avevo vissuto: era la prima volta che ne parlavo con qualcuno. Le chiesi se sapesse niente di procioni parlanti che brillavano nel buio. “Non mi ricordo niente”, disse lei.
A Mendocino, sono successe strane cose. Il mio vicino, Alex Champion, che si è specializzato con me a Berkeley, pensa che la valle nasconda molti misteri. Lui dice che non ci sono problemi, purché sia chiaro che noi siamo la Realtà, e che teniamo in pugno la situazione. Lui dice che dobbiamo solo far vedere chi è che comanda: penso che John Wayne sarebbe d’accordo.
Non ho intenzione di pubblicare un articolo scientifico su queste esperienze, perché non posso fare nessun esperimento. Non sono in grado di far apparire procioni luminosi, e non posso comprarne da una ditta produttrice di materiali scientifici, per studiarli. Non posso perdermi di nuovo, deliberatamente, per qualche ora. Ma non rifiuto di ammettere ciò che è avvenuto. Si tratta del tipo di evento che la scienza definisce aneddotico, perché si è svolto con modalità che non possono essere riprodotte. Però, è accaduto.
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